Nota a Cass. Civ., Sez. II, n. 9317 del 9.5.2016
Con la recente pronuncia in commento, la Suprema Corte affronta la delicata questione circa la rinunciabilità, o meno, degli effetti risolutivi conseguenti ipso iure alla diffida ad adempiere.
Il fatto. La controversia origina da un contratto preliminare di compravendita. Con atto di citazione ritualmente notificato, il promissario acquirente conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale competente, il promissario venditore chiedendo che venissero accertati: a) la legittimità del recesso dal contratto preliminare di compravendita, esercitato dal promissario acquirente, per la malafede precontrattuale della controparte; b) la condotta contraria a correttezza e buona fede della stessa; c) i pretesi vizi dell'immobile promesso in vendita e le difformità dello stesso rispetto alla concessione edilizia rilasciata.
Gli attori chiedevano quindi che controparte venisse condannata al pagamento di una somma pari al doppio della caparra confirmatoria versata, oltre interessi.
Il promissario venditore si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto della domanda attrice e, in via riconvenzionale, domandava che fosse accertata la legittimità del proprio recesso dal contratto preliminare, in relazione al rifiuto della parte promissaria acquirente di concludere il contratto, con conseguente diritto a trattenere la caparra confirmatoria ricevuta.
Il Tribunale, rigettata la domanda attrice, dichiarava che la convenuta avesse il diritto di ritenere la somma ricevuta al titolo di caparra.
Proponevano appello gli attori i quali, in via subordinata, domandavano che fosse accertata la risoluzione ex art. 1454 c.c. del contratto preliminare, con condanna dell'appellata alla restituzione dell'importo da essa trattenuto. La Corte di Appello respingeva il gravame e le parti proponevano ricorso per cassazione.
Diffida ad adempiere e risoluzione ipso iure. Con uno dei motivi di impugnazione innanzi alla Suprema Corte, parte promissaria acquirente lamentava che la risoluzione di diritto del contratto si fosse prodotta a seguito della diffida ad adempiere che la parte promissaria venditrice aveva loro intimato con lettera del 3 maggio 2004.
La convenuta non aveva tuttavia agito per la declaratoria della risoluzione di diritto del contratto ex art. 1454 c.c. - la quale si sarebbe determinata in conseguenza della diffida ad adempiere del 3 maggio 2004 – preferendo piuttosto domandare l'accertamento del proprio diritto di ritenere la caparra, previa declaratoria della legittimità del recesso dal contratto preliminare, siccome esercitato con comunicazione del 24 maggio 2003.
Occorre dunque chiedersi se la diffida ad adempiere (che nel caso di specie parte promissaria venditrice aveva intimato con lettera del 3 maggio 2004) sia revocabile o meno, quesito che in passato ha trovato risposte alterne da parte della Giurisprudenza della Suprema Corte (cfr. Cass. n. 20768/2015; Cass. 23824/2010; Cass. n. 23315/2007), e da chi possa essere eccepita l"eventuale conseguente risoluzione di diritto del contratto.
Gli Ermellini, nella fattispecie in esame, nel rigettare il predetto motivo di impugnazione, giungono alla conclusione che la diffida ad adempiere costituisce una facoltà che si esprime nella libertà di scegliere tale mezzo di risoluzione del contratto a preferenza di altri e nella possibilità di rinunciare agli effetti risolutori già prodotti: il che rientra nell'ambito delle facoltà connesse all'esercizio dell'autonomia privata, al pari della rinuncia al potere di ricorrere al congegno risolutorio di cui all'art. 1454 c.c. (cfr. Cass. 8 novembre 2007, n. 23315; Cass. 1 aprile 2005, n. 6891).
Secondo la Suprema Corte, il contraente non inadempiente che abbia intimato diffida ad adempiere alla controparte, dichiarando espressamente che, allo spirare del termine fissato, il contratto si avrà per risoluto di diritto, ben può rinunciare, successivamente, anche attraverso comportamenti concludenti, alla diffida ed al suo effetto risolutivo (cfr. Cass. 4 agosto 1997, n. 7182).
A parere dello scrivente, sono ben condivisibili le conclusioni della Suprema Corte. E" in base al principio di autonomia che regola i rapporti di diritto privato, che il contraente, il quale abbia inviato alla controparte diffida ad adempiere ex art. 1454 c.c. può sempre, anche dopo la scadenza del termine fissato per l'adempimento, rinunciare alla risoluzione di diritto, con rinuncia che può essere esplicita, ovvero anche implicita (purché risultante da atti univoci), qualora, dopo essersi avvalso della possibilità di risoluzione di diritto su indicata, abbia successivamente ritenuto più conforme ai propri interessi procedere all'esecuzione.
La diffida ad adempiere prevista dall'art. 1454 c.c., infatti, ha lo scopo di fissare con chiarezza la posizione delle parti nell'esecuzione del contratto, mettendo sull'avviso l'inadempiente che l'altra parte non è disposta a tollerare un ulteriore ritardo della prestazione dovutale e che ha già scelto la via della risoluzione del contratto per il caso di inutile decorso del termine fissato. Da ciò consegue che il termine contenuto nella diffida ha carattere essenziale in relazione agli effetti che la legge riconnette alla sua inosservanza e che soltanto al creditore, nel cui esclusivo interesse l'essenzialità è posta, è rimessa la valutazione della convenienza di far valere l'inutile decorso di quel termine.
Pertanto, l'espressione "risolto di diritto", adoperata nell'ultimo comma del citato art. 1454 c.c., significa soltanto che la pronuncia giudiziale relativa ha carattere meramente dichiarativo della risoluzione stessa e non già che il giudice vi possa provvedere di ufficio senza che vi sia stata apposita domanda del creditore, giacché l'effetto risolutorio rimane comunque nella libera disponibilità di quest'ultimo (cfr. Cass. n. 4535/1987).
La sentenza in esame quindi individua la diffida ad adempiere quale strumento a tutela della sola parte non inadempiente (nel caso di specie il convenuto), escludendo che il giudice, in assenza di domanda del creditore, possa dichiarare d'ufficio la risoluzione del contratto a seguito dell'inutile decorso del termine indicato nella diffida.