Cassazione Civile, Sez. Unite, 1.2.2023, n. 3077, Presidente B. Virgilio, Relatore M. Ferro
Con l’importante e recentissima pronuncia in commento, la Suprema Corte, nella sua più autorevole composizione, decidendo su questione di massima di particolare importanza, in tema di responsabilità ambientale, ha affermato che “a carico del proprietario/gestore del sito inquinato che non abbia direttamente causato l’inquinamento, non può essere imposto l’obbligo di eseguire le misure di messa in sicurezza di emergenza (c.d. “m.i.s.e.”) e di bonifica, in quanto gli effetti in capo al proprietario incolpevole sono limitati a quanto previsto dall’art. 253 c. amb. in tema di oneri reali e privilegi speciali immobiliari, possedendo le misure anzidette una connotazione ripristinatoria di un danno già prodottosi che le rende non assimilabili alle misure di prevenzione che, viceversa, il proprietario del sito è obbligato ad assumere in quanto idonee a contrastare un evento recante una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile; al proprietario che non abbia causato l’inquinamento sono, altresì, inapplicabili i criteri di imputazione della responsabilità di cui agli artt. 2050 e 2051 c.c., dal momento che la disciplina definita nella parte quarta del c. amb. per la bonifica dei siti contaminati ha carattere di specialità rispetto alle norme del codice civile, contemplando, a tale proposito, la specifica posizione del proprietario/gestore incolpevole e trovando applicazione nei confronti del responsabile dell’inquinamento (in base al principio “chi inquina paga” di cui alla Direttiva 2004/35/CE), a titolo di dolo o colpa; ne consegue che l'obbligo di adottare le misure utili a fronteggiare la situazione di inquinamento rimane unicamente a carico di colui che di tale situazione sia stato responsabile per avervi dato colposamente o dolosamente causa, non potendosi addossare al proprietario incolpevole dell’inquinamento alcun obbligo né di bonifica, né di messa in sicurezza”.
La disciplina multilivello in tema di prevenzione e riparazione del danno ambientale, osserva la Suprema Corte, procede invero, con accelerazioni adeguatrici non sempre progressive, dall’applicazione interna – oltre che dell’obiettivo-valore dello sviluppo sostenibile, basato anche su tutela e miglioramento della qualità dell'ambiente, così l’art. 3 co.3 Trattato UE - di due principi già presenti nel Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (ora art.191 TFUE) per cui la politica dell'Unione contribuisce a perseguire, tra gli altri, salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell'ambiente, protezione della salute umana, utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali (co.1), così mirando a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell'Unione e fondandosi sui principi della precauzione e dell'azione preventiva ... della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché sul principio "chi inquina paga" (co.2); la conseguente Direttiva 21 aprile 2004 del Parlamento europeo e del Consiglio (2004/35/CE) si è proposta di far applicare alle legislazioni nazionali la prevenzione e la riparazione del danno ambientale secondo il ripetuto principio «chi inquina paga» (artt.1 e 7, All. II), coerentemente con lo sviluppo sostenibile, sancendo che l'operatore la cui attività ha causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno sarà considerato finanziariamente responsabile in modo da indurre gli operatori ad adottare misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno ambientale (cons. 2), dunque privilegiando nettamente l’obiettivo della eliminazione in natura del danno ambientale rispetto alla prospettiva risarcitoria (per equivalente) e fissando una funzionalità altrettanto chiaramente imperniata sulla rilevanza anche giuridica delle attività professionali che presentano un rischio per la salute umana o l'ambiente (cons. 8); ne deriva così che è l'operatore che provoca un danno ambientale o è all'origine di una minaccia imminente di tale danno a dover di massima sostenere il costo delle necessarie misure di prevenzione o di riparazione, mentre il costo dell’intervento di supplenza dell'autorità competente andrebbe posto a carico dell'operatore, includendo il costo della valutazione del danno ambientale ed eventualmente della valutazione della minaccia imminente (cons. 18 e secondo la definizione dell’art.2 co.16); a sua volta, è netta la definizione dell’operatore (art.2 co.6), quale soggetto che esercita o controlla un'attività professionale o al quale sia delegato un potere economico decisivo sul funzionamento tecnico di tale attività.
Imporre al soggetto inquinatore l’obbligo di riparare il danno o, in alternativa, quello di tenere indenne la comunità territoriale che l’abbia evitato o rimosso, significa pertanto addossare – non in chiave etica ma di efficacia, come rilevato nell’analisi economica di tale sistema - le esternalità negative (conseguenti alla produzione o al commercio di beni e servizi) a carico del soggetto cui sia riferibile l’attività, evitando alterazioni di mercato (per qualità dei prodotti e livelli di concorrenza), senza oneri per la collettività ovvero costi assunti in via definitiva dall’ente pubblico; viene così scongiurato ogni scenario di alternativa monetizzazione dell’inquinamento, disincentivato dallo scaricarsi sui soli prezzi, senza altri interventi ed invece declinandosi il principio riassuntivo ‘chi inquina paga’ nella riparazione più diretta del danno ambientale (nei contesti di acque, terreno e biodiversità, i soli dell’art.2 Direttiva), ad opera dell’autore (operatore in attività classificata pericolosa o terzo imputabile ad altro titolo) o, in sua vece e con recupero dei costi, a cura dell’ente pubblico.
Il criterio d’imputazione della responsabilità proprio della Direttiva è invero ricavabile per un verso dalla sua valorizzazione di tipo oggettivo, la più efficace a tutela dell’ambiente e tuttavia con la possibilità, permessa agli Stati membri, di mediare le esigenze dello sviluppo economico, costruendo modelli di responsabilità mista, come forme eccezionali di esonero se il danno è riconducibile ad una terza fonte e nonostante ogni misura di sicurezza o per effetto di un ordine dell’autorità (art. 8 co. 3); parimenti, rileva il principio della colpa del soggetto agente, come previsto dall’art. 8, co. 4 lett. a) e b), per il quale l’operatore può essere escluso dal sostenere i costi delle azioni di riparazione assunte secondo la Direttiva se provi che non gli sia attribuibile un comportamento doloso o colposo; per altro verso, e pertanto, ai sensi dell’art.3 e per quanto qui d’interesse, la mancata elencazione di un’attività professionale tra quelle pericolose determina che il danno o la sua minaccia implichino una responsabilità solo ai sensi di un preciso criterio d’imputazione psicologico della relativa condotta, nell’ulteriore presupposto di una prova del nesso causale tra attività svolta dall’operatore, come in premessa definito dalla Direttiva e perciò individuabile e danno ambientale; 14. il testo del d.lgs. 3 aprile 2006, n.152 (codice dell’ambiente), anche a seguito di due procedure d’infrazione comunitaria (comunicazione del 31.1.2008 e parere del 26.1.2012) volte a superare il rilievo interno ancora proprio del rimedio della riparazione pecuniaria e le ambiguità sulla responsabilità colposa, ha dunque previsto, in pressoché adesivo allineamento alla citata direttiva, le reazioni ordinamentali al danno ambientale come effettivo ripristino (riparazione primaria) o, a seguire, riparazione complementare e compensativa conformemente ai principi della precauzione, dell'azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché al principio "chi inquina paga" (art.3ter); la stessa Corte di cassazione se ne è occupata (nelle pronunce 9012 e 16806 del 2015) innanzitutto chiarendo detti criteri risarcitori; così, la riparazione primaria, ha lo scopo di riportare le risorse e/o i servizi naturali danneggiati alle condizioni originarie; quella complementare, ove essi non tornino alle condizioni originarie, tende a compensare il mancato ripristino completo delle risorse e/o dei servizi naturali danneggiati; la riparazione compensativa pareggia la perdita temporanea di risorse dalla data di verificazione del danno a quella in cui la riparazione primaria non abbia prodotto un effetto completo; ma la definitiva armonizzazione della disciplina italiana rispetto a quella UE ha reso esplicito il conseguente principio per cui «non residua alcun danno ambientale economicamente quantificabile e quindi risarcibile - né in forma specifica, né a maggior ragione per equivalente - ogniqualvolta, avutasi la riduzione al pristino stato, non persista la necessità di ulteriori misure sul territorio reso oggetto dell'intervento inquinante o danneggiante, soltanto il costo (ovvero il rimborso) delle quali potrà essere oggetto di condanna nei confronti dei danneggianti: misure che vanno ora tutte verificate alla stregua della nuova normativa», con l’importante applicazione officiosa e retroattiva ai giudizi pendenti per fatti anteriori proprio della onnicomprensività del nuovo criterio riparatore a superamento di quello per equivalente (conf. Cass. 14935/2016; così anche Cass. 8662/2017 e Cass. 5705/2013 sui criteri di liquidazione del danno);
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Fonte: http://www.cortedicassazione.it/corte-di-cassazione/it/homepage.page
Avv. Jacopo Alberghi – Avvocato del Foro della Spezia