I cd. “danni terminali”, di fonte giurisprudenziale, rappresentano le sole poste di danno liquidabili iure proprio alla vittima di lesioni mortali, a condizione che il decesso non sia immediato ma avvenga dopo un apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni (cfr. Cass. Sezioni Unite n. 15350/2015).
Si tratta cioè del danno subito dalla vittima in ragione della sofferenza provata nell’avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine.
Tale categoria di danno ha conosciuto più di un’incertezza sul piano definitorio, venendo talvolta inquadrata come danno biologico terminale oppure come danno catastrofale a matrice morale, peraltro senza che a tali classificazioni siano poi corrisposte “differenze rilevanti sul piano concreto della liquidazione dei danni” (cfr. Osservatorio Sulla Giustizia Civile Di Milano – Gruppo Danno alla Persona, Gruppo “Quattro”, Criteri orientativi per la liquidazione del danno terminale, 2016).
Giova in primis osservare come la Suprema Corte, in più occasioni, ha chiarito che, in caso di sinistro mortale, il quale abbia determinato il decesso non immediato della vittima, al danno biologico terminale, consistente in un danno biologico da invalidità temporanea totale (sempre presente e che si protrae dalla data dell’evento lesivo fino a quella del decesso), può sommarsi una componente di sofferenza psichica (danno catastrofico o catastrofale) (cfr. Cass. n. 15395/2016; Cass. n. 20915/2016; Cass. n. 21060/2016).
Le due componenti, morale e biologica, del danno cd. terminale (o da morte imminente), hanno quindi natura e presupposti differenti, con significativi risvolti pratici.
Il danno biologico terminale, da liquidarsi in relazione alla menomazione dell’integrità fisica patita dal danneggiato sino al decesso, è trasmissibile iure hereditatis e va commisurato soltanto alla inabilità temporanea, adeguando tuttavia la liquidazione alle circostanze del caso concreto, ossia al fatto che, seppure temporaneo, tale danno è massimo nella sua intensità ed entità, tanto che la lesione alla salute non è suscettibile di recupero ed esita, anzi, nella morte (cfr. Cass. 15491/2014); tale danno biologico-terminale, che è sempre presente a prescindere dallo stato di coscienza del leso, va liquidato – quanto meno – negli importi previsti dalle tabelle relative alla invalidità temporanea assoluta, salvo il riconoscimento di un maggior risarcimento (da apprezzarsi con criterio equitativo puro) nel caso in cui alla gravità delle lesioni si accompagni la sofferenza psichica (danno catastrofico) determinata dalla coscienza della gravità delle infermità e dalla consapevolezza della propria fine imminente (cfr. Cass. 15395/2016; Cass. n. 23183/2014).
In buona sostanza, laddove la liquidazione del danno biologico terminale può essere effettuata sulla base delle tabelle relative all’invalidità temporanea, il danno morale cd. catastrofale, stante la natura peculiare del pregiudizio, comporta la necessità di una liquidazione che si affidi ad un criterio equitativo puro, che tenga conto dell’enormità del pregiudizio, giacché tale danno, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto da esitare nella morte (cfr. Cass. 20915/2016).
Inoltre, ferma la differenza, sopra evidenziata, inerente la tecnica liquidativa (tabellare – nel caso del danno biologico terminale; secondo equità – nel caso del danno morale catastrofale), fondamentale tratto distintivo è rappresentato dalla diversa rilevanza che lo stato di coscienza della vittima assume, con effetti dirimenti circa l’an debeatur della pretesa.
Infatti, diversamente dal danno morale terminale, il danno biologico terminale, quale pregiudizio della salute che, anche se temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità (cfr. Cass. n. 3549/2004), in quanto conduce a morte un soggetto in un sia pure limitato ma apprezzabile lasso di tempo (cfr. Cass. n. 3766/2005), si è ravvisato come “sempre esistente”, per effetto della “percezione”, anche “non cosciente”, della gravissima lesione dell’integrità personale della vittima nella fase terminale della sua vita (Cass. 21060/2016).
In buona sostanza, la più recente giurisprudenza conferma che lo stato di lucidità, nel lasso temporale tra evento e decesso della vittima, costituisce presupposto del solo danno morale catastrofale.
Il danno biologico terminale si fonda, invece, sul differente presupposto della persistenza in vita della vittima per un apprezzabile lasso di tempo, essendo irrilevante al riguardo la circostanza che durante tale periodo la vittima abbia mantenuto uno stato di coscienza.
Il danno (biologico) terminale potrà quindi essere risarcito anche nel caso in cui la vittima non riprenda mai conoscenza.
Si segnala, infine, l’autorevole posizione dell’Osservatorio Sulla Giustizia Civile Di Milano, Gruppo Danno alla Persona, il quale, nel proporre un’apposita tabella liquidativa, ha fornito una definizione omnicomprensiva del “danno terminale”, tale da ricomprendere al suo interno ogni aspetto biologico e sofferenziale connesso alla percezione della morte imminente. Ciò all’evidente fine di evitare il pericolo di duplicazione di medesime poste di pregiudizio.
Sinteticamente, i principi su cui l’Osservatorio fonda i propri criteri liquidativi sono: a) unitarietà ed omnicomprensività del danno terminale, come sopra descritta; b) temporaneità del danno, convenzionalmente fissata in un massimo di 100 giorni, al di là dei quali quale il danno terminale non può prolungarsi, tornando ad esser risarcibile il solo danno biologico temporaneo ordinario; c) coscienza del danno, la consapevolezza della fine vita da parte della vittima parrebbe, dunque, secondo l’Osservatorio un presupposto necessario affinché possa esservi il risarcimento del danno terminale; d) intensità decrescente del danno, il danno tende quindi a decrescere col passare del tempo, dal momento che la massima sofferenza è percepita nel periodo immediatamente successivo all’evento lesivo per poi scemare nella fase successiva (lasciando spazio ad una sorta di adattamento se non, addirittura, alla speranza di sopravvivere); e) personalizzazione del danno, con possibilità per il giudice, a partire dal quarto giorno, di personalizzare la valutazione giornaliera del danno, in relazione alle circostanze del caso concreto e del particolare sconvolgimento che risulti di volta in volta provato.