Diritto penale

Dare del "mafioso" su Facebook è reato? Rientra nel diritto di critica politica? (Cass. Penale 39047/2019)

  

La sentenza in commento riguarda il caso di un ex-sindaco di un comune siciliano, il quale, criticando il sindaco in carica, addebitava allo stesso un comportamento definito come "imposizione o agire mafioso" nella designazione dei candidati per le elezioni locali, esprimendo tale commento su Facebook.

La Suprema Corte ha ritenuto che l'espressione suddetta integri il delitto di diffamazione, escludendo nel caso di specie l'applicabilità dell'esimente del diritto di critica politica.

In proposito è necessario ricordare i principi costantemente affermati dalla Suprema Corte sul tema dell'esercizio del diritto di critica in generale, che ha come presupposto imprescindibile la verità del fatto storico oggetto dell'attenzione critica dell'autore delle espressioni in ipotesi ritenute diffamatorie (cfr. Cass. n. 7715/2014).

La verità degli eventi deve caratterizzare anche l'esercizio del diritto di critica politica che, per quanto per sua natura assuma caratteristiche soggettive e di opinabilità, richiede pur sempre un solido aggancio nella riproduzione corretta e veritiera della realtà (cfr. Cass. n. 25518/2016).

Sempre la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che la critica politica è esprimibile anche con toni polemici ed accesi, probabilmente ad essa quasi storicamente connaturali, e che, se non trasmoda in manifestazioni di ostilità e di malanimo personale, rientra a pieno titolo nell'ambito dell'esercizio del diritto di critica ex art. 51 c.p. (cfr. ex multis Cass. n. 15236/2005).

La sentenza in commento, ha in primis osservato che la parola mafioso assume, soprattutto in Sicilia, per le vicende storiche e recenti di quella regione, appartenenti alla categoria del notorio, un carattere offensivo, oltraggioso ed addirittura odioso. La valenza denigratoria della locuzione, nel senso precisato, aumenta notevolmente se proferita nei confronti di una persona che riveste cariche pubbliche, che dovrebbe mantenersi lontana da qualsiasi tipo di condizionamento, soprattutto di tipo mafioso, tantomeno dovrebbe adottare metodi definibili come mafiosi.

D'altra parte, ricorda la Corte, l'epiteto assume maggior forza offensiva in ragione della sua verosimiglianza, non potendosi negare che una pluralità di accertamenti giurisdizionali hanno chiarito la non infrequente presenza di rapporti collusivi di esponenti della politica e dell'amministrazione pubblica di ogni livello con la mafia.

L'espressione, pertanto, è stata giudicata in sè infamante e la Corte ne ha rilevato sia il mancato rispetto del limite della veridicità, in quanto nulla autorizzava l'imputato a stigmatizzare i comportamenti politici della persona offesa paragonandoli ad una imposizione mafiosa, sia, e per le ragioni già espresse, il superamento del limite della continenza. Infatti, l'uso della parola mafioso in assenza di qualsiasi elemento di verità a suo sostegno e senza alcuna giustificazione risulta essere gravemente disonorevole e solo dispregiativo, trasmodando in una mera aggressione verbale del soggetto criticato (ex multis cfr. Cass. n. 37397/2016).

Sul punto appare utile ricordare che sempre la Suprema Corte, in una risalente pronunzia, ha già ritenuto di natura diffamatoria la parola mafioso, adoperata come attacco diretto a colpire, sul piano personale e senza alcuna finalità di pubblico interesse, la figura morale del soggetto il cui comportamento era disapprovato (Cass. n. 2895/1998).

Gli Ermellini hanno dunque confermato che la parola "mafioso" assume carattere offensivo e infamante e, laddove comunicata a più persone per definire il comportamento di taluno, in assenza di qualsiasi elemento che ne suffraghi la veridicità, integra il delitto di diffamazione, sostanziandosi nella mera aggressione verbale del soggetto criticato. 

 

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Cassazione penale n. 39047/2019

(omissis)

Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso, nel primo motivo inammissibile, è complessivamente infondato.

1.La prima censura, infatti, ha invocato la violazione del principio di cui all'art. 533 c.p.p., comma 1, ma con argomentazione che ha contestato solo in modo generico l'affermazione dei Giudici di secondo grado, secondo la quale la frase ritenuta diffamatoria era destinata alla persona offesa

G.. In sostanza il ricorrente si è limitato a rappresentare che le parole incriminate erano state inserite come commento ad un post proveniente da un gruppo politicamente avverso a G., puntualizzando che questo non era ricollegabile all'imputato Z. e che le espressioni di cui si discute potevano riferirsi a vecchi avversari politici.

1.1 A fronte di tale generica proposizione la motivazione ha analizzato la sequenza ed i contenuti dei post inseriti su Facebook, osservando razionalmente che quello di cui all'imputazione era in perfetta conseguenza cronologica, logica e lessicale con il post precedente, che aveva criticato il modo di preparare le liste elettorali che la persona offesa per il suo ruolo, e non altri, aveva realizzato. D'altra parte la Corte palermitana ha congruamente valorizzato il riferimento ai comportamenti attribuiti a colui che aveva formato le liste in modo politicamente contraddittorio, che lo avrebbero costretto ad accordi sottobanco pur di essere eletto, prassi in passato proprio dal medesimo G. criticata e che invece, secondo l'opinione di Z., sarebbe stato costretto a ripercorrere a causa delle sue scelte nel definire le liste elettorali.

2. La deduzione del secondo motivo, di violazione dell'art. 6 Cedu, per omessa rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, poichè il Giudice di secondo grado senza procedere ad ascoltare la persona offesa, aveva sovvertito il primo giudizio, non è accoglibile, in quanto risulta chiaro dal testo della sentenza impugnata come la prima pronunzia avesse taciuto del tutto sull'accostamento dell'operato politico e personale(passato presente e futuro) di G. all'agire impositivo mafioso, accostamento invece giudicato dalla Corte denigratorio della reputazione di costui.

2.1 D'altra parte il ricorrente ha omesso di spiegare in quale misura la prova orale costituita dalla testimonianza della persona offesa, di cui ha lamentato la mancata rinnovazione, era stata ritenuta decisiva in primo grado al fine della pronunzia liberatoria, sicchè se ne imponesse il riascolto nel giudizio di appello in vista del capovolgimento della decisione del Tribunale.

In proposito è chiaro il testo dell'art. 603, comma 3 bis, che si riferisce a motivi attinenti alla prova dichiarativa, interpretato dalla giurisprudenza di questa Corte nel senso che la prova in parola deve avere carattere di decisività nell'economia del giudizio. In tal senso ex multis: Sez. U, Sentenza n. 18620 del 19/01/2017 Ud. (dep. 14/04/2017)Rv. 269787;Sez. 4, Sentenza n. 5890 del 21/12/2018 Ud. (dep. 07/02/2019) Rv. 275119 in riferimento all'appello presentato dalla parte civile.

Nel caso in esame il ricorrente si è limitato ad una petizione di principio, scollegata da ogni riferimento positivo alla prova testimoniale in parola ed alla valutazione resane dal primo Giudice al fine della sua conclusione. Per converso, occorre ribadire che la sentenza impugnata non ha operato alcun cenno alla testimonianza di G., che risulta esperita ma senza che ne sia stato tratto - stando al contenuto dell'atto di impugnazione ed al testo del provvedimento di cui si discute - un apprezzamento rilevante ai fini della decisione.

2.2 Al contrario la pronunzia della Corte territoriale ha criticato - sia pure implicitamente ma chiaramente - la motivazione del Tribunale monocratico di Marsala per aver mancato di prendere in esame la frase dal contenuto maggiormente offensivo, cioè quella contenente il riferimento ad un modo di comportarsi mafioso attribuito alla persona offesa. Si tratta del passaggio determinante nel discorso argomentativo di ribaltamento della prima pronunzia che, dunque - diversamente da quanto ricavabile dall'atto di impugnazione - è fondato su una valutazione della stessa enunciazione offensiva in precedenza del tutto trascurata dal Tribunale.

3. L'uso delle parole comportamento mafioso ritenuto dalla Corte territoriale integrante il delitto di diffamazione, è oggetto del terzo motivo di ricorso, che ha dedotto l'esimente del diritto di critica politica.

3.1 In proposito è necessario ricordare i principi costantemente affermati da questa Suprema Corte sul tema dell'esercizio del diritto di critica in generale, che ha come presupposto imprescindibile la verità del fatto storico oggetto dell'attenzione critica dell'autore delle espressioni in ipotesi ritenute diffamatorie. Sez. 5, Sentenza n. 7715 del 04/11/2014 Ud. (dep. 19/02/2015) Rv. 264064. La verità degli eventi deve caratterizzare anche l'esercizio del diritto di critica politica che, per quanto per sua natura assuma caratteristiche soggettive e di opinabilità, richiede pur sempre un solido aggancio nella riproduzione corretta e veritiera della realtà.Sez. 5, Sentenza n. 25518 del 26/09/2016 Ud. (dep. 23/05/2017) Rv. 270284; Sez 5 sent. 9373/2006 Rv 233887.

Si è pure precisato che la critica politica è esprimibile anche con toni polemici ed accesi probabilmente ad essa quasi storicamente connaturali - e che, se non trasmoda in manifestazioni di ostilità e di malanimo personale, rientra a pieno titolo nell'ambito dell'esercizio del diritto di critica ex art. 51 c.p.. Ex multis Sez. 5, Sentenza n. 15236 del 28/01/2005 Ud. (dep. 22/04/2005) Rv. 232125;Sez. 5 Sentenza n. 29436 del 06/07/2006 Ud (dep. 25/08/2006)Rv. 235217; Sez. 5, Sentenza n. 30877 del 07/ 07/2006 Ud. (dep. 19/09/2006)Rv. 235222; Sez. 5, Sentenza n. 29433 del 16/05/2007 Ud. (dep. 20/07/2007) Rv. 236839; Sez. 5, Sentenza n. 36077 del 09/07/2007 Ud. (dep. 02/10/2007) Rv. 237726.

3.2 La sentenza impugnata, ha in primis osservato, con motivazione intrinsecamente corretta e adeguatamente esposta, che la parola mafioso assume soprattutto in Sicilia, per le vicende storiche e recenti di quella regione, appartenenti alla categoria del notorio, un carattere offensivo, oltraggioso ed addirittura odioso. La valenza denigratoria, nel senso precisato, della locuzione aumenta notevolmente se proferita nei confronti di una persona che rivesta cariche pubbliche, che dovrebbe mantenersi lontana da qualsiasi tipo di condizionamento, soprattutto di tipo mafioso, tantomeno dovrebbe adottare metodi definibili come mafiosi.

D'altra parte l'epiteto assume maggior forza offensiva in ragione della sua verosimiglianza, non potendosi negare che una pluralità di accertamenti giurisdizionali hanno chiarito la non infrequente presenza di rapporti collusivi di esponenti della politica e dell'amministrazione pubblica di ogni livello con la mafia.

3.3 L'espressione, pertanto, è stata giudicata in sè infamante e la Corte palermitana ne ha rilevato sia il mancato rispetto del limite della veridicità, in quanto nulla autorizzava l'imputato a stigmatizzare i comportamenti politici di G. paragonandoli ad una imposizione mafiosa, sia, e per le ragioni già espresse, il superamento del limite della continenza. Infatti, l'uso della parola mafioso in assenza di qualsiasi elemento di verità a suo sostegno e senza alcuna giustificazione risulta essere - come correttamente opinato dai Giudici di Palermo - gravemente disonorevole e solo dispregiativo, trasmodando in una mera aggressione verbale del soggetto criticato. Ex multis:

Sez. 5, Sentenza n. 37397 del 24/06/2016 Ud. (dep. 08/09/2016;Sez. 5, Sentenza n. 15060 d e/ 23/02/2011 Ud. (dep. 13/04/2011) Rv. 250174.

Sul punto appare utile ricordare che questa Corte, in una risalente pronunzia, ha già ritenuto di natura diffamatoria la parola mafioso, adoperata come attacco diretto a colpire, sul piano personale e senza alcuna finalità di pubblico interesse, la figura morale del soggetto il cui comportamento era disapprovato (Sez. 5, Sentenza n. 2895 del 09/12/1998 Ud. (dep. 03/03/1999) Rv. 212609).

4. Infine, non è ravvisabile alcuna contraddizione logica con l'esito di condanna nella definizione della frase diffamatoria come inconsulta intemperanza verbale adottata dai Giudici dell'appello nella parte motivazionale dedicata al risarcimento del danno. Tale qualificazione, al contrario, appare coerente col ritenuto superamento del limite della continenza espressiva.

4.1 D'altra parte - ed è quel che maggiormente rileva - ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo del delitto di diffamazione, non si richiede che sussista l'"animus iniurandi vel diffamandi", essendo sufficiente il dolo generico, che può anche assumere la forma del dolo eventuale, essendo sufficiente che l'agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni delle stesso agente. Sez. 5, Sentenza n. 4364 del 12/12/2012 Ud. (dep. 29/01/2013) Rv. 254390; Sez. 5, Sentenza n. 8419 del 16/10/2013 Ud. (dep. 21/02/2014) Rv. 258943.

4.2. Nel caso in esame, l'espressione imposizione mafiosa, per le ragioni già chiarite in precedenza, non perde il suo carattere offensivo anche se pronunziata - come ha inteso puntualizzare la Corte territoriale - in modo non profondamente meditato, nè la suddetta modalità appare in sè incompatibile con la coscienza e volontà di offendere l'altrui reputazione.

Correttamente se è tenuto conto allo scopo di quantificare il risarcimento del danno, che è stato molto ridimensionato rispetto alla richiesta della parte civile, proprio in ragione dell'estemporaneità dimostrata dall'imputato nell'uso del linguaggio oltraggioso.

Alla luce dei principi e delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 29 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2019

 

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Sentenza tratta dalla Banca Dati Dejure-Giuffrè Francis Lefebvre che si ringrazia per la disponibilità.