Diritto civile

Tardiva diagnosi di neoplasia e responsabilità della struttura sanitaria: danno cd. da perdita di chance e onere di prova (Sent. Tribunale Lucca, 14/08/2020, n.733)

Si segnala per eccezionale chiarezza espositiva ed esaustività questa interessante pronuncia di merito del Tribunale di Lucca (Sentenza n. 733 del 14/08/2020 a firma del Giudice Dott. Maria Giulia D'Ettore) che affronta un delicato caso di omessa tempestiva diagnosi di un tumore con esito purtroppo infausto per il paziente.

Cosa si intende per cd. danno da perdita di chance? Come avviene il riparto dell'onere probatorio?

Sul punto occorre in primis richiamare il recente e condivisibile orientamento della Suprema Corte (Cassazione civile sez. III, 26/06/2020, n.12928) che ha qualificato la perdita di chance come il “il sacrificio della possibilita' di un risultato migliore”, precisando che “la chance non va identificata con la probabilita' statistica di sopravvivenza, consistendo la specificita' di tale profilo di danno nella privazione della possibilita' di sopravvivere piu' a lungo e/o con minori sofferenze”.

Nell'enucleare il decalogo riassuntivo della causalita' da perdita di chance ed anticipazione della morte, la Corte di Cassazione (Cassazione civile sez. III, 11/11/2019, n.28993), correttamente richiamata dal Giudice lucchese, ha evidenziato che possono, nel caso concreto, formularsi le seguenti ipotesi:

A) La condotta (commissiva o piu' spesso omissiva) colpevolmente tenuta dal sanitario ha cagionato la morte del paziente, mentre una diversa condotta (diagnosi corretta e tempestiva) ne avrebbe consentito la guarigione, alla luce dell'accertamento della disposta CTU. In tal caso l'evento (conseguenza del concorso di due cause, la malattia e la condotta colpevole) sara' attribuibile interamente al sanitario, chiamato a rispondere del danno biologico cagionato al paziente e del danno da lesione del rapporto parentale cagionato ai familiari.

B) La condotta colpevole ha cagionato non la morte del paziente (che si sarebbe comunque verificata) bensi' una significativa riduzione della durata della sua vita ed una peggiore qualita' della stessa per tutta la sua minor durata, in base all'accertamento compiuto dal CTU. In tal caso il sanitario sara' chiamato a rispondere dell'evento di danno costituito dalla perdita anticipata della vita e dalla sua peggior qualita', senza che tale danno integri una fattispecie di perdita di chance - senza, cioe', che l'equivoco lessicale costituito dal sintagma "possibilita' di un vita piu' lunga e di qualita' migliore" incida sulla qualificazione dell'evento, caratterizzato non dalla "possibilita' di un risultato migliore", bensi' dalla certezza (o rilevante probabilita') di aver vissuto meno a lungo, patendo maggiori sofferenze fisiche e spirituali.

C) La condotta colpevole del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata e sull'esito finale, rilevando di converso, in pejus, sulla sola (e diversa) qualita' ed organizzazione della vita del paziente (anche sotto l'aspetto del mancato ricorso a cure palliative): l'evento di danno (e il danno risarcibile) sara' in tal caso rappresentato da tale (diversa e peggiore) qualita' della vita (intesa altresi' nel senso di mancata predisposizione e organizzazione materiale e spirituale del proprio tempo residuo), conseguente alla lesione del diritto di autodeterminazione, purche' allegato e provato (senza che, ancora una volta, sia lecito evocare la fattispecie della chance).

D) La condotta colpevole del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata, sulla qualita' della vita medio tempore e sull'esito finale. La mancanza, sul piano eziologico, di conseguenze dannose della pur colpevole condotta medica impedisce qualsiasi risarcimento.

E) La condotta colpevole del sanitario ha avuto, come conseguenza, un evento di danno incerto: le conclusioni della CTU risultano, cioe', espresse in termini di insanabile incertezza rispetto all'eventualita' di maggior durata della vita e di minori sofferenze, ritenute soltanto possibili alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura del tempo. Tale possibilita' - i.e., tale incertezza eventistica (la sola che consenta di discorrere legittimamente di chance perduta) - sara' risarcibile equitativamente, alla luce di tutte le circostanze del caso, come possibilita' perduta - se provato il nesso causale, secondo gli ordinari criteri civilistici tra la condotta e l'evento incerto (la possibilita' perduta) - ove risultino comprovate conseguenze pregiudizievoli (ripercussioni sulla sfera non patrimoniale del paziente) che presentino la necessaria dimensione di apprezzabilita', serieta', consistenza”.

In altre parole, nonostante la frequente ed erronea sovrapposizione lessicale, rileva il Tribunale di Lucca, laddove sia dedotto quale evento dannoso la perdita anticipata della vita e l'impedimento a vivere il tempo residuo in condizioni migliori e consapevoli e l'accertamento istruttorio conduca a determinare con certezza o con rilevante grado di probabilita' che il soggetto abbia effettivamente vissuto meno a lungo a causa della condotta dei sanitari, la domanda di risarcimento del danno e' da qualificarsi come danno da perdita della possibilita' di sopravvivenza. E' invece invocabile un danno da perdita di chance allorquando l'evento di danno sia costituito dalla possibilita', apprezzabile, seria e concreta di consecuzione di un determinato vantaggio rappresentato dalla conservazione di una miglior qualita' della vita durante il decorso di una malattia e/o da una maggior durata della vita stessa rispetto a quella effettivamente verificatasi, sebbene non sia accertabile e quantificabile, con certezza o ragionevole grado di probabilita', l'eventuale maggiore durata della vita.

Pertanto, nel caso di omessa informazione di neoplasia e ritardato trattamento terapeutico, ancorche' il decesso possa risultare, sulla base delle circostanze del caso concreto, esito inevitabile della patologia, e' comunque necessario valutare, come nel caso in esame, se sussistesse la possibilita' un precoce followup oncologico, e quindi di un diverso percorso diagnostico e terapeutico che consentisse una diversa progressione della malattia ed eventualmente una maggiore sopravvivenza in vita.

Circa il riparto dell'onere probatorio, occorre invece ricordare che "in tema di responsabilità della struttura sanitaria, l'art. 7 della l. n. 24/2017, c.d. Legge Gelli – Bianco,  prevede che la struttura sanitaria, pubblica o privata, la quale, nell'adempimento della propria obbligazione si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria anche se scelti dal paziente e non dipendenti della struttura medesima, risponde delle loro condotte colpose o dolose ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c.. Sul piano probatorio, pertanto, conformemente alle regole di riparto dell'onus probandi previste in ambito contrattuale, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l'onere di provare la relazione causale che intercorre tra l'evento di danno (aggravamento della patologia ovvero insorgenza di una nuova patologia) e l'azione o l'omissione della struttura, mentre spetta alla struttura sanitaria dimostrare la non imputabilità dell'azione o dell'omissione, fornendo la prova che il mancato o inesatto adempimento è stato determinato da un evento imprevedibile ed inevitabile secondo l'ordinaria diligenza". 

* * *

Di seguito il testo della sentenza de quo.

(omissis)

"Ragioni di fatto e di diritto della decisione

Con atto di citazione ritualmente notificato A. R., A. F. e A. M., rispettivamente marito e figli di M.C. hanno convenuto in giudizio la Azienda Usl Toscana Nord Ovest, per sentirla condannare, in via principale, al risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale patito in conseguenza del decesso in data 4.4.2011 di M.C., occorso a causa dell'omessa tempestiva diagnosi di astrocitoma anaplastico da parte dei medici dell'Ospedale Versilia, e del danno biologico dalla medesima patito nell'intervallo ricompreso tra l'evento lesivo e la morte ed, in via subordinata, al risarcimento del danno da perdita di chance di guarigione, oltre alle spese sostenute, anche per la fase di mediazione.

A fondamento della propria domanda, hanno dedotto gli attori che a M.C., ricoverata preso l'Ospedale Versilia dal 6.10.2010 al 1.12.2010, e sottoposta durante la degenza a numerosi esami clinici era stato diagnosticato “ictus cerebrale ischemico con episodi comiziali”, diagnosi ugualmente confermata in data 20.10.2010, a seguito di ulteriore accesso al Pronto Soccorso dell'Ospedale Versilia, ove era stato consigliato un RM encefalo con mezzo di contrasto, non eseguito. Ricoverata in data 5.2.2011 presso l'Ospedale di Carrara e sottoposta a TC cranio, le era stato diagnosticato “astrocitoma anaplastico” ed era stata poi trasferita al reparto di Neurochirurgia di Pisa, ma l'avanzato stato della patologia non aveva consentito il trattamento radioterapico. Pertanto, hanno dedotto la responsabilita' del personale dell'Ospedale Versilia per aver omesso di individuare la massa tumorale, nonostante i numerosi esami clinici tra i quali tac encefalo senza mezzo di contrasto ed avendo altresi' omesso di eseguire esame con il mezzo di contrasto, come consigliato, cosi' impedendo di effettuare un intervento chirurgico e/o terapie radioterapiche, che avrebbero potuto evitare la morte o comunque prolungare la vita della paziente.

Si e' costituita la Azienda USL Toscana Nord Ovest, chiedendo il rigetto dell'avversa domanda, evidenziando che la patologia diagnosticata e' caratterizzata da rapida e devastante crescita e prognosi rapidamente infausta e che M.C. aveva presentato un esordio atipico della patologia neoplastica, a fronte di immagini TAC che non erano risultate univocamente significative di un processo espansivo e precisando che il ritardo nella diagnosi nella fase di esordio della patologia non aveva influito sul verificarsi dell'evento morte.

La causa e' stata istruita in via documentale e mediante c.t.u. medico legale.

All'udienza del 21.6.2019, a seguito della morte di A. M. marito della defunta M.C., gli attori A. F. e A. R., gia' costituiti nella presente causa in quanto figli della defunta madre, si sono costituiti anche quali figli del defunto padre, riportandosi alle difese e conclusioni gia' rassegnate.

In data 27.05.2020, il Giudice, visto l'art. 83 c. 7 D.L. 17.03.2020 n. 18 convertito in L. 24.04.2020 n. 27 nonche' il D.L. 08.04.2020 n. 23 e il D.L. 30.04.2020 n. 28, visti i preverbali depositati dalle parti in PCT, contenenti le conclusioni riportate in epigrafe, ha trattenuto la causa in decisione, assegnando alle parti il termine di trenta giorni per il deposito della comparsa conclusionale e di ulteriori venti giorni per il deposito delle memorie di replica.

1. Fatti di causa.

Sulla base della documentazione versata in atti, della c.t.u. medico-legale esperita e delle deduzioni delle parti i fatti di causa sono stati cosi' ricostruiti: - M.C., era stata trasportata in data 6.10.2010 in ambulanza al Pronto Soccorso dell'Ospedale Unico della Versilia e, a seguito di esame TAC basale del cranio, le era stato diagnosticato in data 7.10.2010 “ictus ischemico”;

- conseguentemente era stata ricoverata in data 7.10.2010 nel reparto di Nefrologia del medesimo presidio ospedaliero, per mancanza di posti letto in Medicina e, durante la degenza, la paziente era stata sottoposta ad ulteriori accertamenti clinici, fra i quali ulteriore esame TAC cranio in data 11.10.2010;

- in data 13.10.2010 era stata trasferita nel reparto di Riabilitazione con diagnosi di “ictus cerebrale ischemico in paziente con diabete mellito insulino-trattato ed ipertensione arteriosa” e nuovamente sottoposta a TAC cranio basale il 26.10.2010 e l'11.11.2010, con conferma della diagnosi gia' formulata; era stata dimessa il 1.12.2010 con indicazione di proseguire il trattamento riabilitativo in regime domiciliare e controllo ambulatoriale per follow up presso l'ambulatorio “percorso ictus” a 6 e 12 mesi dall'evento;

- in data 20.12.2010 era stata nuovamente trasportata al Pronto Soccorso dell'Ospedale Versilia ove, sottoposta a visita neurologica, le era stato prescritto l'aumento della posologia del farmaco ed un esame RNM cranio-encefalo con mezzo di contrasto, esame che tuttavia non veniva ne' programmato ne' effettuato e la paziente era stata dimessa in data 21.12.2010;

- M.C. era stata successivamente ricoverata presso la struttura “S. Maria alla Pineta” di Marina di Massa per essere sottoposta alla prescritta terapia riabilitativa; nel corso della degenza, in data 5.2.2011, era stata trasportata al Pronto Soccorso dell'Ospedale di Carrara, ove era stata sottoposta a TC cranio basale che dava esito di “diffusa alterazione della densita' dell'emisfero cerebrale sinistro” ed a consulenza neurochirurgica, che dava esito di “possibile processo neoplastico o infiammatorio. Le immagini non permettono di trarre conclusioni. Completare non in emergenza accertamenti diagnostici”;

- sottoposta a RM dell'encefalo, in data 8.2.2011, veniva rilevata una “voluminosa neoformazione di aspetto discariocinetico” con diagnosi di astrocitoma di grado elevato multicentrico;

- in data 10.2.2011, trasferita all'AOUPI e sottoposta a biopsia, le era stata diagnosticato “astrocitoma anaplastico III grado WHO” e, rientrata presso l'Ospedale di Carrara, vi era rimasta sino al 9.3.2011; le consulenza oncologica del 26.2.2011 e radioterapica del 3.3.2011 avevano evidenziato l'impossibilita' di assumere terapia farmacologica o di praticare trattamento radioterapico, viste le condizioni cliniche della paziente e lo stadio della patologia;

- M.C. era stata poi trasferita presso l'Hospice “Villa il Contesso”, ove e' deceduta il 4.4.2011.

2. Sull'an debeatur.

Secondo la prospettazione attorea, l'omessa tempestiva individuazione della massa tumorale e diagnosi di astrocitoma, nonostante i numerosi esami clinici tra i quali tac encefalo senza mezzo di contrasto, ed in considerazione della mancata esecuzione di RM con il mezzo di contrasto, come consigliato dallo specialista neurologo, avrebbe impedito di effettuare un intervento chirurgico e/o terapie radioterapiche che avrebbero potuto evitare la morte o comunque prolungare la vita di M.C..

Deducono pertanto gli attori che l'errata diagnosi iniziale di ictus ed il ritardo nell'individuazione della patologia di astrocitoma sia stata causa della morte della propria congiunta o comunque che l'eventuale tempestiva cura ne avrebbe quantomeno incrementato l'aspettativa di vita.

In via principale, agiscono iure proprio, domandando il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale e, iure successionis, il risarcimento del danno patito da M.C. nell'intervallo ricompreso tra l'evento lesivo e la morte.

In via subordinata domandano, iure successionis, il risarcimento del danno da perdita di chance di guarigione.

I danni di cui gli attori domandano il risarcimento trovano titolo in fattispecie di responsabilita' distinte e giuridicamente sussumibili in categorie diverse.

In primo luogo, occorre operare una distinzione tra i danni riferibili alla cosiddetta “vittima primaria” dell'illecito, nel caso di specie M.C. e quelli invece riferibili alle cosiddette “vittime secondarie”, i parenti prossimi.

Il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura o ente ospedaliero ha fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive, con effetti protettivi nei confronti del terzo: insorgono a carico della casa di cura o dell'ente, accanto a quelli di tipo latu sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell'apprestamento di tutte le attrezzature necessarie.

L'orientamento prevalente in giurisprudenza qualificava tale fattispecie di responsabilita' in capo alla struttura sanitaria quale responsabilita' di tipo contrattuale; essa puo' discendere sia dall'inadempimento delle obbligazioni direttamente incombenti a suo carico, ex art. 1218 c.c. sia, ex art. 1228 c.c., dall'inadempimento della prestazione medico professionale svolta dai sanitari, quali suoi ausiliari necessari, pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato.

Tale ricostruzione e' stata poi recentemente avvalorata dall'art. 7 della l. n. 24/2017, c.d. Legge Gelli – Bianco, in cui espressamente si prevede che “la struttura sanitaria, pubblica o privata, la quale, nell'adempimento della propria obbligazione si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria anche se scelti dal paziente e non dipendenti della struttura medesima, risponde delle loro condotte colpose o dolose ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c.”.

Sul piano probatorio, pertanto, conformemente alle regole di riparto dell'onus probandi previste in ambito contrattuale, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l'onere di provare la relazione causale che intercorre tra l'evento di danno (aggravamento della patologia ovvero insorgenza di una nuova patologia) e l'azione o l'omissione della struttura, mentre spetta alla struttura sanitaria dimostrare la non imputabilita' dell'azione o dell'omissione, fornendo la prova che il mancato o inesatto adempimento e' stato determinato da un evento imprevedibile ed inevitabile secondo l'ordinaria diligenza (Cass. civ. Sez. III, 26.07.2017, n. 18392 che conferma Cass. 16.01.2009, n. 975; 9.10.2012, n. 17143; 20.10.2015, n. 21177).

Tuttavia, la natura contrattuale della responsabilita' della struttura sanitaria e' predicabile solo limitatamente al risarcimento del danno richiesto dal paziente in proprio ovvero, in caso di suo decesso prima dell'inizio del giudizio, dai parenti iure successionis, in quanto fondata sul rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura privata (o ente ospedaliero), mentre le cc.dd.

“vittime secondarie” non sono legate alla struttura sanitaria ed al personale medico operante presso la stessa da alcun rapporto contrattuale. La domanda di risarcimento del danno iure proprio da perdita del rapporto parentale deve, pertanto, inquadrarsi nell'alveo dell'art 2043 c.c., con conseguente onere a carico del danneggiante di provare non soltanto il nesso di causalita' tra l'evento di danno e l'azione o l'omissione ascritta alla struttura, ma anche l'elemento soggettivo del dolo e della colpa.

Circa l'accertamento del nesso di causalita', secondo un principio ormai consolidato, una condotta umana si pone come causa dell'evento nella catena degli antecedenti che hanno concorso a produrlo se, eliminata mentalmente la condotta (nel caso di condotta attiva) o introdotta nella catena causale la condotta omessa (nel caso di condotta omissiva), l'evento dannoso non si sarebbe in concreto verificato (in questo senso, si veda la nota pronuncia della Cassazione penale, SS.UU, sentenza 11.09.2002 n. 30328-Franzese).

Difatti il giudice deve essere in grado di affermare che, nel caso concreto, non esistono altre possibili spiegazioni dell'evento, diverse da quelle evidenziate dall'attore; la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica deve, pertanto, essere attentamente valutata e valorizzata in ragione della specificita' del caso concreto.

In ambito civilistico, diversamente da quanto accade in sede di accertamento del fatto di reato, nell'analisi della causalita' materiale, e' univocamente adottato il meno stringente criterio della probabilita' relativa, anche detto criterio del “piu' probabile che non”, in luogo del criterio dell'accertamento “al di la' di ogni ragionevole dubbio”.

Una volta accertato il nesso di causalita' tra la condotta dedotta e la patologia riscontrata, occorrera' poi indagare circa l'elemento soggettivo del dolo e della colpa, tenendo conto che gli esercenti le professioni sanitarie, nell'esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalita' preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificita' del caso concreto, alle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunita' scientifica (come di recente confermato dapprima dal cosiddetto “Decreto Balduzzi” e successivamente dall'art 3 l. 24/2017-Legge Gelli).

Cosi' inquadrate le dedotte responsabilita', occorre ulteriormente evidenziare che nel caso di specie gli attori assumono, in via principale, che l'errata condotta dei sanitari sarebbe stata causa dell'evento morte o comunque avrebbe determinato la perdita di una possibilita' di sopravvivenza della propria congiunta ed in via subordinata deducono la perdita di chance di guarigione della propria congiunta.

La domanda di risarcimento di un danno da lesione di un bene costituzionalmente tutelato (quale la salute o il rapporto parentale) e' ontologicamente diversa da una domanda di risarcimento per perdita di chance.

Si richiama sul punto il recente e condivisibile orientamento della Suprema Corte (Cassazione civile sez. III, 26/06/2020, n.12928) che ha qualificato la perdita di chance come il “il sacrificio della possibilita' di un risultato migliore”, precisando che “la chance non va identificata con la probabilita' statistica di sopravvivenza, consistendo la specificita' di tale profilo di danno nella privazione della possibilita' di sopravvivere piu' a lungo e/o con minori sofferenze”.

Nell'enucleare il decalogo riassuntivo della causalita' da perdita di chance ed anticipazione della morte la Corte di Cassazione (Cassazione civile sez. III, 11/11/2019, n.28993) ha evidenziato che possono, nel caso concreto, formularsi le seguenti ipotesi:

“A) La condotta (commissiva o piu' spesso omissiva) colpevolmente tenuta dal sanitario ha cagionato la morte del paziente, mentre una diversa condotta (diagnosi corretta e tempestiva) ne avrebbe consentito la guarigione, alla luce dell'accertamento della disposta CTU. In tal caso l'evento (conseguenza del concorso di due cause, la malattia e la condotta colpevole) sara' attribuibile interamente al sanitario, chiamato a rispondere del danno biologico cagionato al paziente e del danno da lesione del rapporto parentale cagionato ai familiari.

B) La condotta colpevole ha cagionato non la morte del paziente (che si sarebbe comunque verificata) bensi' una significativa riduzione della durata della sua vita ed una peggiore qualita' della stessa per tutta la sua minor durata, in base all'accertamento compiuto dal CTU. In tal caso il sanitario sara' chiamato a rispondere dell'evento di danno costituito dalla perdita anticipata della vita e dalla sua peggior qualita', senza che tale danno integri una fattispecie di perdita di chance - senza, cioe', che l'equivoco lessicale costituito dal sintagma "possibilita' di un vita piu' lunga e di qualita' migliore" incida sulla qualificazione dell'evento, caratterizzato non dalla "possibilita' di un risultato migliore", bensi' dalla certezza (o rilevante probabilita') di aver vissuto meno a lungo, patendo maggiori sofferenze fisiche e spirituali.

>

C) La condotta colpevole del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata e sull'esito finale, rilevando di converso, in pejus, sulla sola (e diversa) qualita' ed organizzazione della vita del paziente (anche sotto l'aspetto del mancato ricorso a cure palliative): l'evento di danno (e il danno risarcibile) sara' in tal caso rappresentato da tale (diversa e peggiore) qualita' della vita (intesa altresi' nel senso di mancata predisposizione e organizzazione materiale e spirituale del proprio tempo residuo), conseguente alla lesione del diritto di autodeterminazione, purche' allegato e provato (senza che, ancora una volta, sia lecito evocare la fattispecie della chance).

D) La condotta colpevole del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata, sulla qualita' della vita medio tempore e sull'esito finale. La mancanza, sul piano eziologico, di conseguenze dannose della pur colpevole condotta medica impedisce qualsiasi risarcimento.

E) La condotta colpevole del sanitario ha avuto, come conseguenza, un evento di danno incerto: le conclusioni della CTU risultano, cioe', espresse in termini di insanabile incertezza rispetto all'eventualita' di maggior durata della vita e di minori sofferenze, ritenute soltanto possibili alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura del tempo. Tale possibilita' - i.e., tale incertezza eventistica (la sola che consenta di discorrere legittimamente di chance perduta) - sara' risarcibile equitativamente, alla luce di tutte le circostanze del caso, come possibilita' perduta - se provato il nesso causale, secondo gli ordinari criteri civilistici tra la condotta e l'evento incerto (la possibilita' perduta) - ove risultino comprovate conseguenze pregiudizievoli (ripercussioni sulla sfera non patrimoniale del paziente) che presentino la necessaria dimensione di apprezzabilita', serieta', consistenza”.

In altre parole, nonostante la frequente ed erronea sovrapposizione lessicale, laddove sia dedotto quale evento dannoso la perdita anticipata della vita e l'impedimento a vivere il tempo residuo in condizioni migliori e consapevoli e l'accertamento istruttorio conduca a determinare con certezza o con rilevante grado di probabilita' che il soggetto abbia effettivamente vissuto meno a lungo a causa della condotta dei sanitari, la domanda di risarcimento del danno e' da qualificarsi come danno da perdita della possibilita' di sopravvivenza. E' invece invocabile un danno da perdita di chance allorquando l'evento di danno sia costituito dalla possibilita', apprezzabile, seria e concreta di consecuzione di un determinato vantaggio rappresentato dalla conservazione di una miglior qualita' della vita durante il decorso di una malattia e/o da una maggior durata della vita stessa rispetto a quella effettivamente verificatasi, sebbene non sia accertabile e quantificabile, con certezza o ragionevole grado di probabilita', l'eventuale maggiore durata della vita.

Pertanto, nel caso di omessa informazione di neoplasia e ritardato trattamento terapeutico, ancorche' il decesso possa risultare, sulla base delle circostanze del caso concreto, esito inevitabile della patologia, e' comunque necessario valutare se sussistesse la possibilita' un precoce followup oncologico, e quindi di un diverso percorso diagnostico e terapeutico che consentisse una diversa progressione della malattia ed eventualmente una maggiore sopravvivenza in vita.

Cio' che rileva – ai fini dell'accertamento del nesso di causalita' tra condotta ed evento – e' in definitiva la perdita, da parte del paziente, della possibilita' di vivere piu' a lungo a causa dell'inadempimento altrui.

Dall'istruttoria svolta e tenuto conto degli esiti della c.t.u. e' emerso che la morte di M.C. non e' causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari, ma si e' comunque verificato, per errori ed omissioni dei sanitari, un concreto ritardo di diagnosi e quindi di cura.

Sul punto, si condividono integralmente le conclusioni rassegnate dal collegio peritale, atteso che il percorso logico e le argomentazioni poste a base della consulenza, che tengono puntualmente conto della documentazione versata in atti e delle rispettive prospettazioni delle parti, nonche' delle osservazioni formulate dai c.t.p., che si sono associati alle conclusioni rassegnate dai consulenti d'ufficio, sono intrinsecamente coerenti e congrui, evidenziando la correttezza metodologica dell'approccio seguito.

Il collegio peritale, condividendo la diagnosi di astrocitoma anaplastico III grado WHO ed escludendo, pertanto, un qualsiasi profilo di responsabilita' in capo ai sanitari dell'Ospedale di Carrara e dell'AUOPI, che hanno formulato analoga diagnosi, ha esaminato la documentazione medica relativa ai ricoveri ed accessi in Pronto Soccorso dell'Ospedale Versilia.

Con riguardo a primo accesso in Pronto Soccorso dell'Ospedale Versilia del 6.10.2020, il collegio peritale ha escluso che possa essere rivolta alcuna censura all'operato del personalemedico intervenuto, che aveva diagnosticato alla defunta ictus ischemico, precisando che la TAC cranio-basale effettuata aveva escluso lesioni cerebrali emorragiche, mentre erano state rilevate aree ipodense, suggestive di esiti ischemici.

Al contrario, il collegio peritale ha precisato che, nel corso del ricovero della paziente presso il reparto di Nefrologia dal 7 al 13.10.2010, il quadro clinico e la presenza di anomalie dell'attivita' bioelettrica cerebrale in sede temporale sinistra avrebbe reso opportuna la programmazione di un approfondimento diagnostico, ovvero TAC e/o RM con mezzo di contrasto.

Ulteriormente, nel corso della degenza nel reparto di Neuroriabilitazione dal 13.10.2010 al 1.12.2010, gli esiti dell'esame tac praticato in data 11.11.2010 avevano evidenziato una progressione delle lesioni rispetto a quelle riscontrate nel precedente esame diagnostico e, pertanto, sarebbe stato doveroso procedere all'esecuzione di un ulteriore approfondimento diagnostico con RM encefalica.

Il collegio peritale ha infine valutato come inadeguata alla condizione clinica della paziente e difforme rispetto alle indicazioni in esito alla consulenza neurologica la condotta dei medici del Pronto Soccorso che intervennero in data 20.12.2010, che omisero i necessari accertamenti diagnostici.

E' emerso pertanto dall'istruttoria che si verifico' un ritardo di diagnosi e quindi di cura della neoplasia cerebrale dalla quale era affetta la M.C. e che, qualora la diagnosi fosse stata “posta gia' nel novembre 2010, si sarebbe potuto sottoporre la paziente ad intervento di exeresi parziale della lesione o, in subordine, a biopsia della medesima, con successivo trattamento radio e chemio-terapico”.

Precisa, infatti, il collegio peritale che i gliomi di alto grado tra cui rientra anche l'astrocitoma anaplastico III grado WHO sono di per se' caratterizzati da un elevatissimo tasso di mortalita'; nei pazienti trattati con procedura chirurgica e successive radio e chemioterapia, che nel caso specifico non sono state praticate, in quanto, al momento della diagnosi, lo stadio della patologia non consentiva alcun trattamento terapeutico, “vengono indicate durate di sopravvivenza oscillanti da un massimo di circa 60 mesi nei pazienti sottoposti ad exeresi totale o subtotale della lesione, a valori minimi di 24-15 mesi in caso di exeresi parziale o biopsia”.

Tenendo conto dell'eta' della M.C., 78 anni, della comorbilita' di diabete mellito ed ipertensione arteriosa e degli esiti degli esami neurologici, ha concluso il collegio peritale che la Mei avrebbe avuto chances di sopravvivenza di ulteriori 15 mesi e che “il potenziale di tale perdita di possibilita' sulla base di un giudizio prognostico e quindi un calcolo delle probabilita', tenuto conto di circostanze certe, e' pari al valore numerico del 60%”, sebbene non sia stato possibile per il collegio esprimere considerazioni relativamente alla qualita' della vita godibile in tale periodo di tempo.

Deve ritenersi, pertanto, che la condotta omissiva colposa dei sanitari non abbia cagionato la morte della paziente, che si sarebbe comunque verificata, in considerazione della natura della patologia di cui era affetta la M.C., bensi' abbia causato una riduzione della durata della sua vita, in quanto una tempestiva diagnosi avrebbe consentito alla medesima una sopravvivenza di ulteriori 15 mesi.

I consulenti non concludono, diversamente da quanto affermato dalla difesa della convenuta, nel senso di incertezza circa l'eventuale maggior durata della vita, ma indicano un preciso parametro di riferimento, che rende apprezzabile, serio e consistente il nesso tra la condotta e l'evento.

Nel caso di specie non si fa dunque questione di possibilita' di guarigione, bensi' di danno alla salute patito in conseguenza della ritardata diagnosi e, pertanto, di danno da perdita di possibilita' di sopravvivenza ulteriore. Non si risarcisce, dunque, il danno da perdita di chance di futura piu' lunga sopravvivenza, posto che non vi erano ragionevoli possibilita' di guarigione, ma e' risarcibile il danno alla persona durante il periodo di piu' breve sopravvivenza, a fronte di un esito della patologia comunque infausto, quale danno alla salute.

Nel caso di specie non e' stato, invece, ne' allegato ne' provato un danno da lesione del diritto di autodeterminazione, correlato a scelte di vita della paziente diverse da quelle adottate, se non si fosse verificato l'evento dannoso; non e' dunque domandato dagli attori il risarcimento di un danno da lesione della liberta' di autodeterminarsi, bensi' e' esclusivamente dedotto che, qualora la paziente fosse stata adeguatamente curata, sarebbe vissuta piu' a lungo e, presumono gli attori, che la qualita' della sua vita sarebbe stata migliore.

Come gia' indicato dall'istruttoria svolta non e' stato possibile ritenere che la qualita' della vita sarebbe stata migliore o diversa da quella effettivamente vissuta dalla pazienta ed anche il collegio peritale ha precisato di non poter formulare valutazioni in proposito; a fronte delle conclusioni del collegio gli attorio non hanno provato in giudizio tale danno, meramente allegato.

All'uopo, non rilevano i capitoli di prova formulati che sono riferibili a circostanze, relative all'assistenza prestata alla propria madre e moglie dai familiari che di per se' non risultano dirimenti. Infatti, non e' emerso che, in caso di tempestiva diagnosi della patologia, la Mei avrebbe condotto un'esistenza diversa da quella che ha effettivamente vissuto, sino al suo decesso, ne' che l'assistenza, la riabilitazione e le cure prestate siano state conseguenza immediata e diretta dell'omissione dei sanitari, risultando piuttosto necessitate dal quadro patologico complessivo della medesima.

Parimenti, non vi e' prova del cosiddetto danno catastrofale, inteso come consapevolezza dell'imminente morte, dovendosi ricondurre il risarcimento del danno in favore dei comparenti iure successionis esclusivamente a quello effettivamente provato in giudizio e rappresentato dalla perdita anticipata della vita da parte della M.C.

Infine, non puo' riconoscersi il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, posto che non e' stato provato il nesso di causalita' tra la morte e la condotta omissiva dei sanitari.

Deve pertanto procedersi al risarcimento in via equitativa del danno non patrimoniale relativo al minor periodo di vita della defunta, rispetto a quello che vi sarebbe stato se fosse stata tempestivamente diagnosticata la patologia.

3. Sul quantum debeatur.

Le possibilita' di sopravvivenza, misurate in astratto secondo criteri percentuali, rilevano ai fini della liquidazione equitativa del danno, che deve tenere in adeguato conto anche lo scarto temporale tra la durata della sopravvivenza effettiva e quello della sopravvivenza possibile in caso di corretta e tempestiva diagnosi.

Tenuto conto che il fatto illecito non e' stato causa della morte in se', ma solo della morte in quella data e non successivamente, il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale in favore degli aventi diritto, non potra' che investire detta anticipazione della morte, ed avere quindi come termine di riferimento il lasso di tempo intercorrente tra la data in cui l'evento si e' effettivamente verificato e quello in cui si sarebbe presumibilmente verificato se il fatto illecito.

Nel caso specifico, M.C. e' deceduta nell'aprile 2011.

Come evidenziato, la diagnosi avrebbe dovuto essere effettuata gia' nel novembre 2010, dunque ella ha vissuto cinque mesi in luogo dei 15, indicati dal collegio peritale come plausibile durata della sua vita, in caso di corretta e tempestiva diagnosi.

Pertanto, la M.C. ha vissuto 10 mesi in meno di quanto sarebbe accaduto se fosse stata correttamente diagnosticata la patologia.

In via equitativa, in assenza di parametri di riferimento, dovra' rapportarsi la liquidazione del danno alla riduzione del periodo di sopravvivenza provocata dall'errore medico, nel caso specifico 15 mesi, con probabilita' del 60% e cio', sulla base dei criteri di liquidazione fatti propri anche da altri Tribunali di merito (ex aliis Tribunale Livorno, 19/03/2018, n.332 che richiama Tribunale di Monza 30.1.1998, in Resp. civ. prev., 1999, 701):

a) determinando la somma che sarebbe spettata alla vittima nel caso di invalidita' permanente pari al 100%; b) dividendo tale somma per il numero di anni della vittima; c) moltiplicando il risultato per il periodo di sopravvivenza ulteriore; d) calcolando sull'importo cosi' ottenuto la percentuale di possibilita' perduta.

Il valore risarcitorio dell‘invalidita' totale che sarebbe spettata a M.C. (78 anni all'epoca dei fatti) e', secondo le tabelle del Tribunale di Milano, che in materia di danno non patrimoniale “sono da prendersi a riferimento da parte del giudice di merito ai fini della liquidazione del predetto danno ovvero quale criterio di riscontro e verifica della liquidazione diversa alla quale si sia pervenuti” (cosi' Cass. civ. Sez. III Ord., 28/06/2018, n. 17018Cass. Civ., III, 7 giugno 2011, N. 12408; Cass. Civ., III, 30 giugno 2011, N. 14402; Cass. Civ., III, 31 agosto 2011, N. 17879; Cass. Civ., III, 12 settembre 2011, N. 18641), pari ad euro € 749.903,00, alla quale risulta equo applicare, tenuto conto del decorso rapidamente ingravescente della patologia e della circostanza che, a causa dell'omessa tempestiva diagnosi, alla Mei non fu consentito di beneficiare di cure radioterapiche, terminando i propri giorni in Hospice, con cure palliative, la personalizzazione in ragione del 25% e cosi' per complessivi € 937.379,00; dividendo detto importo per il numero degli anni della vittima, si ottiene l'importo di € 12.017,7, il quale, moltiplicato per il numero di mesi in cui la stessa avrebbe vissuto da' la somma di € 10.014,75. Su detta somma va calcolata la percentuale del 60% di possibilita' di sopravvivenza perduta, per €6.008,85.

4. Interessi e rivalutazione.

Il ritardato adempimento dell'obbligo di risarcimento del danno impone al debitore di: (a) pagare al creditore l'equivalente monetario del bene perduto, espresso in moneta dell'epoca della liquidazione, il che si ottiene con la rivalutazione del credito, salvo che il giudice l'abbia gia' liquidato in moneta attuale; (b) pagare al creditore il lucro cessante finanziario, ovvero i frutti che il denaro dovutogli a titolo di risarcimento sin dal giorno del sinistro avrebbe prodotto, in caso di tempestivo pagamento.

Quanto agli interessi, in particolare, va richiamato l'orientamento assunto dalla Suprema Corte, che, con una decisione a Sezioni Unite (v. Cass. Civ. 17.02.1995 n.1712, piu' di recente, Cass, Civ., III, 27.07.2001, n.10291; Cass. Civ., III, 15.01.2001, n.492; Cass. Civ., III, 1.12.2000, n.15368), ha posto fine ad un contrasto da tempo esistente in ordine alle modalita' di calcolo di tali accessori nell'ipotesi di pronuncia risarcitoria da illecito, stabilendo che “qualora la liquidazione del danno da fatto illecito extracontrattuale sia effettuata "per equivalente", con riferimento, cioe', al valore del bene perduto dal danneggiato all'epoca del fatto illecito, e tale valore venga poi espresso in termini monetari che tengano conto della svalutazione intervenuta fino alla data della decisione definitiva (anche se adottata in sede di rinvio), e' dovuto al danneggiato anche il risarcimento del mancato guadagno, che questi provi essergli stato provocato dal ritardato pagamento della suddetta somma”.

Tuttavia, tale prova puo' essere data e riconosciuta dal Giudice secondo criteri presuntivi ed equitativi e, quindi, anche mediante l'attribuzione degli interessi ad un tasso stabilito, valutando tutte le circostanze oggettive e soggettive inerenti alla prova del pregiudizio subito per il mancato godimento del bene o del suo equivalente in denaro.

Sulle somme liquidate a titolo di capitale, pertanto, come devalutate alla data del fatto secondo gli indici ISTAT dei prezzi al consumo delle famiglie di operai ed impiegati e, quindi, rivalutate anno per anno secondo il medesimo indice, la convenuta dovra' corrispondere anche gli interessi al tasso legale.

Dal momento della sentenza, sino all'effettivo soddisfo, dovranno essere, inoltre, corrisposti, sulla somma totale sopra liquidata all'attualita', gli ulteriori interessi al tasso legale.

5. Spese di lite.

Le spese del presente giudizio sono poste a carico della parte soccombente, ai sensi dell'art 91 c.p.c., e si liquidano come in dispositivo con riferimento allo scaglione corrispondente al valore della causa (€5.201-€26.000), secondo i parametri medi.

Parimenti a carico della parte soccombente sono poste le spese per la c.t.u. e le spese per la fase di mediazione obbligatoria.

Con riferimento, invece, alle spese sostenute dai comparenti per i consulenti di parte, si evidenzia che nel presente giudizio, non sono state prodotte le relative fatture, riferibili all'attivita' svolta dal consulente di parte (con quantificazione dei compensi).

Ai fini della liquidazione, le spese del CTP devono, oltre che espressamente richieste dalla parte, anche quantificate, provate ed altresi' riferibili al procedimento.

In particolare, la quantificazione del relativo compenso e' infatti necessaria anche ai fini della valutazione di congruita' della spesa sostenuta, come evidenziato dalla Corte di Cassazione (Cass., 10173/2015), che ha precisato che, sebbene le spese di consulenza tecnica di parte rientrino tra quelle che la parte vittoriosa ha diritto di vedersi rimborsate, tuttavia il giudice ai sensi dell'art. 92, comma 1, c.p.c. ha la facolta' di escluderle dalla ripetizione, ritenendole eccessive o superflue.

Si ritiene, pertanto, in assenza di un principio di prova sulla quantificazione del relativo compenso di non statuire nei loro confronti sulle spese per le consulenze di parte.

PQM
P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, cosi' provvede:

1) condanna l'Azienda USL Toscana Nord Ovest, in persona del legale rappresentante pro tempore, a corrispondere, iure successionis, a A. R. e A. F. la somma di €6.008,85, oltre interessi al tasso legale dalla data del fatto ad oggi sulla somma devalutata al momento del fatto secondo gli indici ISTAT dei prezzi al consumo delle famiglie di operai ed impiegati e, quindi, rivalutata, anno per anno fino ad oggi, secondo il medesimo indice, oltre successivi interessi al tasso legale sull'importo totale cosi' calcolato sino al saldo;

2) condanna l'Azienda USL Toscana Nord Ovest, in persona del legale rappresentante pro tempore, a rimborsare agli attori le spese di lite, per € 4.835,00, oltre spese generali, IVA, CPA come per legge e spese di contributo unificato, bollo e notifica, nonche' le spese sostenute per la fase di mediazione per €488,00;

3) pone definitivamente a carico della Azienda USL Toscana Nord Ovest, in persona del legale rappresentante pro tempore, le spese di c.t.u.

Lucca, 14 agosto 2020

Il Giudice dott. Maria Giulia D'Ettore"

* * *

Sentenza tratta dalla Banca Dati Dejure-Giuffrè Francis Lefebvre che si ringrazia per la gentile disponibilità.

Avv. Jacopo Alberghi