Inquadramento normativo. La fattispecie in esame rientra nell’ambito della cd. responsabilità del custode di cui all’art. 2051 c.c. in base al quale “ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”.
Funzione della norma è quella di imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa, dovendo pertanto considerarsi custode chi di fatto ne controlla le modalità d'uso e di conservazione, e non necessariamente il proprietario o chi si trova con essa in relazione diretta. Ai fini della configurabilità di una “relazione di custodia” è dunque sufficiente una mera condizione di fatto.
La responsabilità di cui all’art. 2051 c.c., secondo la prevalente giurisprudenza, ha natura oggettiva (minoritaria è la tesi della colpa presunta), trovando il suo fondamento nella mera relazione intercorrente tra la res e colui che su di essa esercita l’effettivo potere.
L'art. 2051 c.c. non prevede infatti una responsabilità aquiliana, ovvero non richiede alcuna negligenza nella condotta che si pone in nesso eziologico con l’evento dannoso, bensì stabilisce una responsabilità oggettiva, che è circoscritta esclusivamente dal caso fortuito, e non, quindi, dall’ordinaria diligenza del custode (cfr. Cass. n. 12027/2017).
La responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia, di cui all'art. 2051 c.c., opera quindi anche per la P.A. in relazione ai beni demaniali, con riguardo, tuttavia, alla causa concreta del danno.
L'ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito si presume responsabile, ai sensi dell'art. 2051 c.c., dei sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo connesse alla struttura ed alla conformazione della strada e delle sue pertinenze (cfr. Cass. n. 7805/2017; Cass. n. 15761/2016).
In tema di responsabilità da negligente manutenzione delle strade, è quindi in colpa la Pubblica Amministrazione che non provveda alla manutenzione o messa in sicurezza delle aree, anche di proprietà privata, latistanti le pubbliche vie, quando da esse possa derivare pericolo per gli utenti delle strade, né ad inibirne l’uso generalizzato (cfr. Cass. n. 3216/2017).
Il fatto. A causa dei danni riportati in una caduta sopra un tombino presente in strada e non segnalato, un ciclista proponeva domanda risarcitoria, ex art. 2051 c.c., nei confronti del Comune tenuto alla manutenzione della predetta sede viaria.
Il Tribunale, in primo grado, accoglieva la domanda dell’attore e condanna l’Ente al risarcimento di tutti i danni patiti dal ciclista.
Il Comune proponeva appello, cui controparte resisteva, e la Corte d'appello accoglieva il gravame, affermando in sintesi che il tombino era facilmente evitabile, per cui era stata l'imprudenza dell'appellato l'unica causa del sinistro.
Il ciclista proponeva ricorso per cassazione avverso la predetta sentenza.
La soluzione della Suprema Corte. La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso del danneggiato, approfondisce e chiarisce, ancora una volta, come deve avvenire il riparto dell'onere probatorio previsto dall'art. 2051 c.c..
In primo luogo, la Suprema Corte rileva l’errore del Giudice di appello che ha gravato l'infortunato dell'onere di provare, a fronte di una mera allegazione (pienamente generica) da parte del custode, che nessun pericolo vi sarebbe stato se egli avesse compiuto una immediata deviazione (verso il centro strada) così da non venire in contatto con il dislivello del tombino.
Come correttamente ricordato dalla Suprema Corte, spetta invece al custode della strada dimostrare che la caduta deriva dal caso fortuito, includendo ciò anche la condotta imprudente/negligente del ciclista, ovvero se quest'ultimo avesse avuto la possibilità di attuare concrete manovre ostative della caduta senza incorrere in nessun altro rischio.
Il caso fortuito, integrato eventualmente dalla omissiva condotta del ciclista, avrebbe dovuto essere provato e non solo allegato; del resto - si nota incidenter - insegna il notorio che per un ciclista è comunque, pericoloso sterzare d'improvviso, vista la conformazione del veicolo (classica ipotesi di perdita di controllo e caduta dal velocipede) o, ancor peggio, che il ciclista che d'improvviso sterza verso il centro della strada si sottopone frequentemente al rischio di investimento da parte degli altri veicoli.
Ricordano gli Ermellini, affermare che laddove il pericolo è manifesto "la imprudenza dell'interessato diventa la causa unica" del sinistro significa erroneamente esonerare da ogni responsabilità il custode della cosa che produce il pericolo. A parte che di per sé la condotta colposa del danneggiato può non essere idonea a integrare il caso fortuito (da ultimo cfr. Cass. n. 9547/2015), la mera percepibilità del pericolo, invero, può non essere affatto sufficiente a convertire la condotta del danneggiato in condotta imprudente che assorbe ogni incidenza causale. Un pericolo, infatti, può essere manifesto ma al tempo stesso non evitabile; pertanto il fatto che il danneggiato non eviti un pericolo manifesto non comporta la qualifica di imprudenza della sua condotta. La corte territoriale, invece, ha ritenuto che, una volta dimostrata la visibilità del pericolo, ogni onere probatorio si fosse spostato sul danneggiato, che avrebbe dovuto dimostrare come la sua condotta, a questo punto presunta imprudente come si è appena visto, in realtà imprudente non era stata, e che comunque non vi era stata per lui una concreta possibilità di evitare la caduta. Una prova negativa posta a carico del danneggiato e, al tempo stesso, un evidente svuotamento dell'onere probatorio del custode relativo al caso fortuito.
In conclusione, la Suprema Corte, accogliendo il primo motivo del ricorso del ciclista, ha cassato la sentenza impugnata e rinviato, anche per le spese del grado, alla Corte d'appello competente.
Avv. Jacopo Alberghi