In tema di responsabilità per danni cagionati da animali, come è noto, la norma di riferimento è rappresentata dall’art. 2052 c.c. in base alla quale “il proprietario di un animale, o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall'animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito”.
L'art. 2052 c.c. prevede, alternativamente e senza vincolo di solidarietà, la responsabilità del proprietario dell'animale ovvero dell'utilizzatore, evenienza questa ipotizzabile solo allorché il proprietario si sia spogliato, in fatto o in diritto, del governo dell'animale (cfr. Cass. 979/2010).
La responsabilità de quo si fonda non su un comportamento o un'attività (commissiva od omissiva) del proprietario, o di chi si serve di un animale, ma su una relazione intercorrente tra i predetti e l'animale, il cui limite risiede nel caso fortuito (cfr. Cass. n. 10402/2016).
Secondo la prevalente giurisprudenza, trattasi di responsabilità avente appunto natura oggettiva, in quanto basata su una relazione, di proprietà o di uso (che può anche essere temporaneo), intercorrente tra proprietario e animale, trovando unico limite nel caso fortuito, ossia nell’intervento di un fattore esterno nella determinazione del danno, che presenti i caratteri della imprevedibilità, della inevitabilità e dell’assoluta eccezionalità.
È bene ricordare come il caso fortuito possa essere rappresentato anche dal comportamento del danneggiato, purché avente le predette assorbenti caratteristiche di eccezionalità (cfr. Cass. 7703/2015).
In punto di onere della prova, ai sensi dell'art. 2052 c.c., la responsabilità dei proprietari dell'animale è presunta, fondata non sulla colpa ma sul rapporto di fatto con l'animale, con la conseguenza che il proprietario risponde in ogni caso e in toto per i danni cagionati al terzo, a meno che non fornisca la prova del fortuito.
La responsabilità del proprietario dell'animale, o di chi se ne serva per il tempo in cui l'ha in uso, si fonda infatti sulla presunzione di colpa “juris et de jure in vigilando od in custodendo” e postula la mera relazione, dunque di proprietà o di uso, con l'animale, nonché il nesso causale tra il fatto dell'animale medesimo ed il danno subito dall'attore. Ne consegue che “spetta all'attore provare l'esistenza del rapporto eziologico tra l'animale e l'evento lesivo, mentre il convenuto, per liberarsi dalla responsabilità, dovrà provare non già di essere esente da colpa, bensì l'esistenza di un fattore, estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale” (cfr.Cass. 7260/2013).
Il limite della responsabilità, come anticipato, risiede nell'intervento di un fattore, il caso fortuito, che attiene non ad un comportamento del responsabile, ma alle modalità di causazione del danno; la rilevanza del fortuito deve essere apprezzata sotto il profilo causale, in quanto suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre ad un elemento esterno, anziché all'animale (che ne è fonte immediata), il danno concretamente verificatosi.
La fattispecie relativa a danni causati da animali randagi ha invece diverso inquadramento normativo; trattasi infatti di responsabilità disciplinata dalle regole generali di cui all’art. 2043 c.c. e non da quelle stabilite dall’art. 2052 c.c.; non è quindi possibile riconoscere una siffatta responsabilità semplicemente sulla base dell’individuazione dell'ente cui le leggi nazionali e regionali affidano in generale il compito di controllo e gestione del fenomeno del randagismo e neanche quello più specifico di provvedere alla cattura ed alla custodia degli animali randagi, occorrendo la puntuale allegazione e la prova, il cui onere spetta all'attore danneggiato in base alle regole generali, di una concreta condotta colposa ascrivibile all'ente (cfr. Cass. 18954/2017).
Come anticipato, le conseguenze sul piano pratico di tale diverso inquadramento normativo sono notevoli, soprattutto per il danneggiato, il quale, in caso di danni subiti da parte di animale randagio, è quindi tenuto a provare sia la concreta condotta colposa ascrivibile all’ente responsabile, sia la riconducibilità dell’evento dannoso, in base ai principi sulla causalità omissiva, al mancato adempimento di una condotta obbligatoria in concreto esigibile (ad esempio perché vi erano state specifiche segnalazioni della presenza abituale dell'animale in un determinato luogo, rientrante nel territorio di competenza dell'ente preposto, e ciò nonostante quest'ultimo non si era adeguatamente attivato per la sua cattura).
Avv. Jacopo Alberghi - Avvocato del Foro della Spezia