Diritto civile

Morte da infezione ospedaliera e profili di responsabilità della struttura sanitaria (Sentenza n. 258/2024 del Tribunale della Spezia)

Sentenza n. 258/2024 del Tribunale della Spezia, pubblicata il 12.03.2024, Giudice Dott. Gabriele Romano

 

Trattasi di delicato caso di responsabilità medica affrontato dal nostro studio, attraverso n. 2 cause civili patrocinate dall’Avv. Jacopo Alberghi, con articolato percorso giudiziario definitosi con sentenza di merito nel mese di marzo 2024.

Con il provvedimento in esame, il Tribunale della Spezia, nella persona del G.I. Dott. G. Romano, ha affrontato il complesso caso di una paziente di anni 93 ricoverata presso la struttura ospedaliera a causa della frattura del femore e poi deceduta, come dimostrato in giudizio, a causa di infezioni da germi nosocomiali.

L’Azienda sanitaria dal principio negava ogni responsabilità in merito al decesso della paziente.

Poiché ASL non riscontrava le richieste risarcitorie degli eredi, i figli della vittima, ravvisando invece svariate omissioni nelle condotte dei sanitari per come emergenti dalle cartelle cliniche, decidevano di procedere nelle opportune sedi giudiziarie.

Veniva quindi avviato, come da Legge Gelli, ricorso ex art. 696bis c.p.c. per l’accertamento tecnico preventivo tramite C.T.U. medico legale.

Gli attori esponevano in quella sede che la madre, di anni 93, era stata ricoverata ad ottobre 2020 presso la divisione di Ortopedia dell’Ospedale della Spezia a seguito di frattura del femore.

Dopo la dimissione la de cuius era stata però costretta a rivolgersi nuovamente alle cure del pronto soccorso, poiché fortemente sofferente.

Veniva quindi diagnosticata sepsi da infezione delle vie urinarie e da infezione di ferita chirurgica ortopedica, con disposizione di nuovo ricovero nel corso del quale veniva confermata l’infezione da

staphylococcus aureus.

La paziente, purtroppo, decedeva in ospedale in data 15 dicembre 2020.

A conclusione del procedimento per ATP ex art. 696 bis c.p.c., il Collegio peritale nominato confermava la piena responsabilità della struttura sanitaria convenuta, condividendo le doglianze rappresentate dagli attori.

L’Azienda Sanitaria, tuttavia, contestava integralmente anche le risultanze di detta perizia, espletata in sede di accertamento tecnico preventivo, nonché le richieste di parte ricorrente.

In particolare, la struttura osservava come il collegio peritale avesse erroneamente ritenuto l’assenza di adeguata prova liberatoria relativamente alla predisposizione delle adeguate misure antisepsi, nonché come il collegio non avesse preso in considerazione le osservazioni dei consulenti della resistente, i quali avevano evidenziato l’alto rischio di complicanze infettive e l’imprevenibilità dell’evento dannoso. La struttura deduceva altresì la carenza di prova del fatto che l’infezione fosse stata contratta in ospedale, essendosi la paziente auto-dimessa e avendo fatto nuovamente accesso in ospedale alcuni giorni dopo.

Gli attori erano dunque costretti a procedere nuovamente in sede giudiziaria, per la fase di merito, chiedendo l’acquisizione del fascicolo di cui al predetto procedimento e concludendo per la condanna della convenuta al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti, in esito all’ingiusta perdita della madre.

La convenuta Azienda Sanitaria, ritualmente intimata, si costituiva in giudizio contestando le risultanze della CTU svolta nel procedimento per ATP e negando la sussistenza di proprie responsabilità in relazione ai fatti dedotti in giudizio.

Il Tribunale della Spezia reputava però fondate le doglianze degli attori, figli della paziente deceduta, evidenziando come, relativamente all’origine dell’infezione, i C.T.U. avessero messo in luce che già prima dell’auto-dimissione vi fossero inequivocabili segni di infezione in rapido divenire; inoltre, in punto di accertamento della colpa, il provvedimento sottolinea come, secondo la più recente giurisprudenza, “a fronte della prova presuntiva, gravante sul paziente, della contrazione dell’infezione in ambito ospedaliero, la struttura può fornire la prova liberatoria di aver adottato tutte le misure utili alla prevenzione delle stesse” (così Cass., Sez. III, Ord. n. 16900 del 13 giugno 2023).

Nondimeno, come correttamente rilevato dal Tribunale di Spezia, nel caso di specie il collegio peritale nominato nel procedimento ex art. 696 bis c.p.c. ante causam ha accertato che “la pz è andata incontro a ben tre infezioni da germi nosocomiali. La prima, ad avviso dello scrivente causa di tutte le successive evoluzioni negative fino all’exitus, è stata l’infezione del sito chirurgico da parte di Staphylococcus aureus multiresistente sicuramente già iniziata prima della dimissione volontaria del 17/10 quando i globuli bianchi erano notevolmente aumentati (fino a 34.000) ed era comparsa iperpiressia. Il rientro al domicilio in pz fragile, confusa ed agitata, potrà avere accelerato l’estrinsecarsi dell’infezione ma non diversa sarebbe stata l’evoluzione della infezione se la pz fosse rimasta degente. La seconda infezione, altrettanto chiaramente nosocomiale, è quella urinaria e del tampone rettale dovuta a Klebsiella pneumonie produttore di carbapenemasi; è evidente che all’ingresso in reparto la pz era negativa (2 tamponi rettali) e che il 23 e 24/11 è risultata positiva. Questo germe è assolutamente nosocomiale ed è infondato ipotizzare un contagio al domicilio nei 5 giorni di permanenza tra il primo e secondo ricovero. La terza infezione da Candida parapsilosis multiresistente, anch’esso (fungo) nosocomiale, è la conseguenza da un lato dell’indebolimento organico correlato alle protratte e massicce terapie antibiotiche e, dall’altro, dell’ospedalizzazione. L’infezione fungina ha determinato la sepsi che ha condotto a morte la paziente”.

Pur riconoscendo la correttezza dell’operato dei sanitari, dell’esecuzione dell’intervento e delle successive terapie somministrate, i CTU hanno tuttavia evidenziato che “La critica da muovere alla struttura sanitaria è ovviamente relativa alle infezioni da germi nosocomiali che una scrupolosa e corretta azione di profilassi e prevenzione dovrebbero quanto meno ridurre se non eliminare. La produzione di protocolli aziendali di disinfezione e sanificazione e di linee guida relative all’igiene ambientale, ovviamente senza il riscontro e documentazione della effettiva scrupolosa e costante applicazione, non permette di manlevare la Struttura dalla responsabilità relativa al contagio del paziente ricoverato da parte di questi germi che, data la loro resistenza agli antibiotici, sono appunto catalogati come “nosocomiali”. Altrettanto non può essere richiamata come scusante la farmacoresistenza di questi germi che sovrainfettano in ambiente ospedaliero il paziente. L’azione virtuosa dovrebbe essere quella di applicare tutte le possibili ‘armi’ per ridurre/eliminare questi germi mediante una realmente incisiva azione preventiva e profilattica. Il paziente si ricovera in ospedale per essere curato e l’aspettativa non può essere che quella di essere inserito in un ambiente idoneo e non 4 di dover temere infezioni e sovrainfezioni che possano compromettere ulteriormente il suo stato di salute”. Esclusa la possibilità che l’infezione fosse stata contratta al domicilio, i periti hanno quindi confermato il nesso eziologico tra il decesso della paziente e le plurime infezioni insorte in ambito nosocomiale, con evento “letifero” terminale correlato alla sepsi da Candida parapsilosis. Eventi la cui responsabilità “ricade sulla Struttura Sanitaria, sulla organizzazione e della gestione delle prassi di igienizzazione, prevenzione e profilassi delle strutture ospedaliere e di formazione e gestione del personale sanitario alla problematica specifica”.

Appurata quindi la responsabilità della struttura convenuta a livello di an debeatur, il Tribunale si soffermava poi sul quantum risarcitorio, evidenziando come il danno lamentato dai ricorrenti, scaturito dalla rottura del rapporto parentale con la propria madre, “va al di là del crudo dolore che la morte in sé di una persona cara, tanto più se preceduta da agonia, provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono” (così Cass. 9 maggio 2011, n. 10107).

Trattasi di ipotesi di danno non patrimoniale cd. presunto, patito da soggetti legati da uno stretto vincolo parentale con la vittima e caratterizzato da una liquidazione necessariamente equitativa, in seno alla quale “occorre apprezzare la gravità ed effettiva entità del danno in considerazione dei concreti rapporti col congiunto, anche ricorrendo ad elementi presuntivi quali la maggiore o minore prossimità del legame parentale, la qualità dei legami affettivi (anche se al di fuori di una configurazione formale), la sopravvivenza di altri congiunti, la convivenza o meno col danneggiato, l’età delle parti ed ogni altra circostanza del caso”.

Il Tribunale ha quindi proseguito facendo corretta applicazione delle nuove tabelle cd. “a punti” del Tribunale di Milano, per il danno da lesione parentale, giungendo ad assegnare – facendo confluire nel provvedimento i punteggi indicati dai ricorrenti – 72 punti alla figlia e 39 punti al figlio, in virtù di quanto emerso in sede di istruttoria, tramite l’ascolto di vari testi che hanno permesso di ricostruire e differenziare l’intensità del vincolo affettivo fra genitore e figlio.

Per assegnare i punti stabiliti in tabella “Sono state considerate le circostanze indicate dalla Cassazione e già menzionate anche nei “Criteri orientativi” delle pregresse tabelle milanesi, quali: l’età della vittima primaria, l’età della vittima secondaria, la convivenza, l’esistenza di superstiti, la qualità ed intensità della relazione affettiva che caratterizzava lo specifico rapporto parentale perduto. Giova sottolineare che le cinque circostanze considerate ai fini della distribuzione dei punti non costituiscono ciascuna un pregiudizio in sé ovviamente, ma integrano tutte elementi che rivelano -secondo le note massime di comune esperienza, cfr. Cass. 25164/2020- l’esistenza e consistenza di una sofferenza soggettiva e di pregiudizi dinamico-relazionali derivanti dalla perdita del parente. Si può notare che le prime quattro circostanze hanno natura “oggettiva” e sono quindi “provabili” anche con documenti anagrafici; la quinta circostanza è di natura “soggettiva” e riguarda sia gli aspetti cd “esteriori” del danno da perdita del parente (stravolgimento della vita della vittima secondaria in conseguenza della perdita) sia gli aspetti cd “interiori” di tale danno (sofferenza interiore) e deve essere allegata, potendo poi essere provata anche con presunzioni. Nell’apprezzamento dell’intensità e qualità della relazione affettiva, si dovrà valutare lo specifico rapporto parentale perduto, con tutte le caratteristiche obiettive e soggettive, sulla scorta di quanto allegato e provato (anche con il ricorso alle presunzioni) in causa”. Ciò al fine di “evitare che il risarcimento si traduca in un mero calcolo matematico e le tabelle siano usate come una scorciatoia per eludere gli oneri assertivi e probatori gravanti sulle parti e l’obbligo di motivazione gravante sul giudice; le tabelle devono tener conto, invece, delle peculiarità della fattispecie concreta e dar modo ai difensori di allegare e provare (spesso anche in via presuntiva) i fatti posti a fondamento della domanda, ovvero di eccepirne l’insussistenza, ed al Giudice di motivare sul punto, sì da evitare che si liquidi un danno in re ipsa”.

Il Tribunale ha quindi previsto un punteggio per ognuna delle circostanze indicate dalla Cassazione e già menzionate anche nei “Criteri orientativi” delle precedenti tabelle milanesi (quali l’età della vittima primaria, l’età della vittima secondaria, ecc.), con determinazione del totale dei punti secondo le circostanze presenti nella fattispecie concreta e moltiplicazione del risultato per il valore punto, pervenendo così all’importo monetario riconoscibile.

Alla luce di tali punteggi, e tenuto conto dell’età comunque già avanzata della signora e della presumibile necessità di ricovero presso una struttura riabilitativa post operazione, il Tribunale ha ritenuto di riconoscere un importo pari ad Euro 193.824,00 in favore della figlia e di Euro 118.111,50 in favore del figlio della defunta.

Passaggio interessante è rappresentato dalle considerazioni svolte in sentenza in merito ad interessi e rivalutazione.

Il Tribunale infatti, correttamente e in conformità dei più recenti pronunciamenti della Suprema Corte, ha ritenuto che sulle somme dovute a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale debbano essere riconosciuti sia la rivalutazione monetaria che gli interessi – dal giorno dell’illecito fino al provvedimento decisorio – quale corrispettivo del mancato tempestivo godimento, da parte del danneggiato, dell’equivalente pecuniario del debito di valore.

Come messo in luce dal Giudice, “la corresponsione degli interessi costituisce uno dei criteri di liquidazione del predetto lucro cessante, la cui sussistenza può ritenersi provata alla stregua anche di presunzioni semplici e il cui ammontare può essere determinato secondo un equo apprezzamento. Pertanto, alla stregua dei principi affermati con la sentenza citata, le somme precedentemente liquidate in favore dei ricorrenti a titolo di danno non patrimoniale – attualizzate a giugno 2022, data di pubblicazione delle tabelle milanesi – devono essere devalutate alla data dell’illecito […]. Sulla somma così calcolata e via via rivalutata annualmente secondo gli indici ISTAT devono quindi essere applicati gli interessi al tasso legale”.

L’Azienda Sanitaria veniva pertanto condannata al risarcimento dei predetti danni, oltre spese di C.T.U. e processuali di soccombenza, con liquidazione in favore dei ricorrenti.

Di seguito il testo integrale della sentenza, clicca QUI

Avv. Jacopo Alberghi – Avvocato del Foro della Spezia