La pronuncia in esame riguarda il caso di un paziente che aveva contratto un’infezione nosocomiale (fistola cutanea a livello della ferita distale, infetta per la presenza di Escherichia coli in elevata concentrazione) in esito ad intervento chirurgico per un intervento di osteosintesi con chiodo gamma, con gravissime conseguenze.
Con la pronuncia in esame la nostra Corte di Appello di Genova ha confermato che:
“(…) L'ente ospedaliero è tenuto, una volta che il paziente è stato ricoverato, ad adottare un modello organizzativo e di prevenzione finalizzato ad evitare, o perlomeno ridurre, il rischio di insorgenza di infezioni di tipo nosocomiale, per tutta la durata del ricovero e ad apprestare cure e trattamenti terapeutici adeguati al contagio; all'ente, quindi, spetta dimostrare di aver adottato e rispettato tutte le procedure per una adeguata asepsi (misure di prevenzione e di profilassi), così da far escludere la sussistenza di alcun profilo di colpa e ricondurre l'infezione all'interno di quella percentuale di casi non evitabili e rientranti nel c.d. rischio consentito”.
Di seguito il testo integrale del pronunciamento che ha visto la struttura sanitaria condannata in primo grado al risarcimento dei danni patiti dall’attore, liquidati in Euro 431.584,00:
MOTIVI
Na. Ri. ha citato in giudizio, innanzi al Tribunale di Imperia, la Azienda ASL 1 Imperiese ed il Centro Sant'Anna SpA ed ha sostenuto:
di essere caduto accidentalmente nella sua abitazione in data 14 ottobre 2012;
di essere stato operato, in data 18 ottobre 2012, per un intervento di osteosintesi con chiodo gamma presso l'ospedale di Imperia;
che, subito dopo la dimissione, era comparsa una fistola cutanea a livello della ferita distale, infetta per la presenza di Escherichia coli in elevata concentrazione, come rilevato dallo stesso ospedale;
che tale infezione era stata contratta, evidentemente, in occasione dell'intervento e del ricovero in ospedale;
che, a causa dell'infezione, l'attore era stato ricoverato presso la Divisione di Ortopedia dell'Ospedale di Imperia a far data dal 27 novembre 2012 ed il 4 dicembre 2012 era stato sottoposto ad intervento di rimozione del mezzo di sintesi ed alla toilette della ferita;
di essere stato trasferito presso la Residenza Protetta Sant'Anna per cominciare la riabilitazione, ove, in data 31 dicembre 2012, nel corso di una seduta di riabilitazione in palestra, aveva riportato una nuova frattura femorale;
che, a causa di tale infortunio, il 7 gennaio 2013, si era sottoposto ad un intervento di osteosintesi in FEA (fissatore esterno assiale);
che, anche in questo caso, la ferita si era infettata in sede di inserzione di apparecchio fissatore esterno per la presenza di 'Staphilococco aureus meticillino-resistente (MRSA).
che l'attore aveva, perciò, subito un primo intervento di rimozione del FEA il 08/04/2013 presso l'ospedale di Albenga, un secondo intervento di cefalectomia (asportazione della testa femorale), bonifica, derotazione ed allungamento anca destra ed applicazione di spaziatore antibiotato e, in data 21/10/2013, era stato nuovamente operato per la rimozione dello spaziatore e posizionamento di protesi totale d'anca;
che solo il 22 gennaio 2014 era stato definitivamente dimesso.
Sia il centro Sant'Anna che la Asl 1 si sono costituiti in giudizio, con autonome comparse ed hanno chiesto di respingere le domande proposte nei loro confronti.
Il Centro Sant'Anna ha chiesto di chiamare in causa la propria compagnia assicuratrice, Unipolsai (ex Fondiaria).
Quest'ultima si è costituita in giudizio ed ha chiesto di respingere le domande proposte nei suoi confronti, in quanto il contratto assicurativo non prevedeva la copertura di un simile rischio.
La causa è stata istruita con prove documentali ed a mezzo di ctu e, all'esito, il Tribunale di Imperia ha pronunciato la sentenza 481/18 con la quale:
ha respinto le eccezioni di nullità della ctu e la richiesta di rinnovo o di chiamata a chiarimenti del ctu;
ha sostenuto che la responsabilità dei convenuti era di tipo contrattuale e che, quindi, questi dovevano dimostrare di avere adempiuto alle obbligazioni assunte nei confronti del sig. Ri..
Tale prova non era stata fornita, ragion per cui alla Asl era imputabile la doppia infezione patita dal paziente successivamente agli interventi chirurgici del 18 ottobre 2012 e del 31 dicembre 2012. Diversamente, al Centro Sant'Anna era imputabile l'omessa vigilanza del fisioterapista, il quale aveva consentito che il sig. Ri. caricasse sull'arto destro da poco operato, con conseguente rottura del femore;
ha affermato la responsabilità solidale ex art. 2055 c.c. dei convenuti per l'infortunio patito dal sig. Ri.;
ha, quindi, condannato i convenuti a pagare all'attore, a titolo di danno non patrimoniale, l'importo di euro 431.584,00, oltre accessori e spese di lite;
ha, infine, accolto la domanda di manleva proposta da Sant'Anna nei confronti di Unipolsai, condannata a rifondere alla propria assicurata le spese di lite.
La Asl 1 ha impugnato la sentenza in questione e ne ha chiesto l'integrale riforma, con rigetto delle domande proposte nei suoi confronti, previo rinnovo della ctu. Si. Ri., quale erede di Na. Ri., deceduto in data 4 marzo 2018, si è costituito in giudizio ed ha chiesto di respingere l'appello.
Anche il Centro Sant'Anna si è costituito in giudizio ed ha evidenziato la, a suo dire, eccessiva quantificazione del danno da parte del Tribunale.
Anche Unipolsai si è costituito in giudizio ed ha chiesto di respingere ogni domanda comunque proposta nei confronti del Centro Sant'Anna e, di conseguenza, nei suoi confronti.
In corso di giudizio, la Corte di Appello ha disposta una nuova ctu medico legale.
Le parti hanno precisato le conclusioni come riportate in epigrafe all'udienza del 13 luglio 2021.
Con il primo motivo, parte appellante ha chiesto di dichiarare nulla o di disporre, comunque, il rinnovo della ctu, in quanto quella deposita in primo grado non era adeguatamente motivata e di dar corso ad ulteriore istruttoria, volta a dimostrare che la Asl si era adeguata alle linee guida in materia di profilassi ambientale e sterilizzazione del materiale utilizzato. In un simile quadro, in cui l'infezione si era verificata nonostante l'adozione da parte dell'ente di tutte le cautele necessarie, non era comprensibile qual era la negligenza imputabile alla Asl, né era stata spesa alcuna parole da parte del ctu in relazione all'esistenza del nesso causale tra i danni riscontrati dal ctu del giudizio di primo grado, riconducibili ad una impossibilità a deambulare, incontinenza, decadimento psichico e la suddetta infezione. Tuttavia, la perizia non aveva considerato le gravi invalidità preesistenti di cui l'attore era portatore a causa dalla sua condizione di obesità.
Con il secondo motivo, la Asl ha lamentato che il ctu aveva sopravvalutato i postumi invalidanti permanenti, tanto da giungere ad una quantificazione degli stessi superiore anche a quella proposta dalla stesso ctp attoreo (che aveva riconosciuto un'invalidità del 40%), senza neppure motivare sul punto.
Il Tribunale si era acriticamente adeguato alle risultanze della ctu, nonostante parte attrice, in sede di precisazione delle conclusioni, avesse chiesto la liquidazione di un importo inferiore, pari ad euro 260.000,00.
Con il terzo motivo, l'appellante ha lamentato che il Tribunale aveva omesso l'indicazione del percorso logico sulla cui base era giunto alla monetizzazione del danno iatrogeno, tenuto conto del fatto che il sig. Ri. era affetto da invalidità preesistenti legate anche alla frattura del femore, non imputabile alla Asl.
Con il quarto motivo, l'appellante ha lamentato che il Tribunale aveva incrementato gli importi dovuti secondo le tabelle del Tribunale di Milano del 25% (pari ad euro 76.556,00), in difetto dei presupposti di legge per la personalizzazione del danno medesimo e sulla base unicamente delle medesime limitazioni funzionali già considerate ai fini della determinazione dell'ammontare del grado di invalidità.
Con il quinto motivo, l'appellante ha ritenuto censurabile la decisione del Tribunale di identificare una responsabilità paritaria tra il centro S. Anna e l'ospedale, senza alcuna motivazione effettiva, mettendo sullo stesso piano la condotta incolpevole della ASL 1 con quella gravemente colposa del centro S. Anna.
Infine, l'appellante ha evidenziato che la riforma della sentenza di primo grado avrebbe determinato una modifica della disciplina delle spese di lite.
Anche il centro S. Anna si è associato ai motivi di appello sulla determinazione del quantum, evidenziando l'eccessività della liquidazione del danno contenuta nella sentenza impugnata, sia in ordine alla determinazione del grado di invalidità riscontrato dalla sentenza di primo grado sulla base di quanto indicato dalla ctu, sia in ordine alla riconosciuta personalizzazione del danno non patrimoniale.
Il primo motivo di appello, nella parte in cui contesta la responsabilità della Asl, è infondato.
L'attore è stato ricoverato presso l'ospedale di Imperia per essere sottoposto, a distanza di tempo, a 2 interventi chirurgici (in data 18 ottobre 2012 e 7 gennaio 2013) ed in entrambi i casi si sono manifestati infezioni di origine nosocomiale. In particolare, vi è stata una prima infezione del sito chirurgico manifestatasi già in data 9 novembre 2012 e, cioè, circa 20 gg. dopo il primo intervento.
5 giorni dopo il secondo intervento chirurgico di riduzione e stabilizzazione con fissatore esterno, vi è stata una seconda infezione, questa volta polibatterica, sviluppatasi a livello di uno o più dei bracci del FEA.
Come già precisato dalla sentenza di primo grado, tra le parti (Asl e Ri.) è stato stipulato, al momento del ricovero, un contratto di ospedalità.
Dal contratto stipulato tra l'ospedale ed il paziente, discende, tra le altre, l'obbligazione di prevenire e gestire possibili contagi (a prescindere da quali ne sono le fonti) che traggono origine proprio dall'ambiente ospedaliero, ove sono ricoverati soggetti spesso privi di adeguate difese immunitarie.
In particolare, l'ente ospedaliero è tenuto, in adempimento del contratto stipulato con il paziente, una volta che questo è stato ricoverato, ad adottare un modello organizzativo e di prevenzione finalizzato ad evitare, o perlomeno ridurre, il rischio di insorgenza di infezioni di tipo nosocomiale, per tutta la durata del ricovero e ad apprestare cure prestate e trattamenti terapeutici adeguati al contagio.
All'ente, quindi, spetta dimostrare di aver adottato e rispettato tutte le procedure per una adeguata asepsi (misure di prevenzione e di profilassi), così da far escludere la sussistenza di alcun profilo di colpa e ricondurre l'infezione de qua all'interno di quella percentuale di casi non evitabili e rientranti nel c.d. rischio consentito.
L'onere della prova è a carico della Asl (ex plurimis, Cass. Sez. Un. 577/08; Cass. Sez. Un. 13533/01 in tema di responsabilità contrattuale e Cass. 28991-2/19, secondo cui 'Ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l'inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l'aggravamento della situazione patologica, o l'insorgenza di nuove patologie, e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l'esatta esecuzione della prestazione' (Cass. 28991-2/19).
Solo una volta che l'ente ospedaliero abbia assolto tale onere, qualora vi sia l'infezione, si dovrà ritenere che questa si collega a quella percentuale prevedibile ma non prevenibile delle infezioni nosocomiali.
Nella specie, risulta dimostrato il ricovero presso l'ospedale, il peggioramento delle condizioni di salute del paziente durante questo e il collegamento causale tra i contagi ed i ricoveri (come emerge dalla ctu e dal fatto che si tratta di una tipica infezione nosocomiale), mentre non risulta che parte appellante abbia dimostrato di avere adempiuto alle proprie obbligazioni, né l'impossibilità dell'esatta esecuzione della prestazione.
La ctu del giudizio di appello ha indicato che le infezioni sono state probabile conseguenza degli interventi medesimi e sono state determinate da una carente gestione e vigilanza delle pratiche di sanificazione, sterilizzazione e profilassi perioperatorie di struttura.
L'Azienda ha prodotto attestazione di sterilizzazione dei materiali utilizzati, un rapporto ispettivo sui comportamenti e conoscenze delle procedure da parte del personale, linee guida e protocolli vari su sanificazione, lavaggio mani, corretta preparazione dei container, ma, come evidenziato da entrambi i ctu, sia in primo che in secondo grado, nulla ha documentato sulla reale asepsi degli ambienti, sale operatorie e corsie, e degli strumenti e sulla reale applicazione del buon operato.
Anche i capitoli di prova formulati da parte appellante in memoria ex art. 183 n. 2 c.p.c. e non ammessi non possono portare ad un diverso
esito.
In primo luogo, questi hanno riguardato unicamente il primo intervento e non il secondo.
In secondo luogo, la ctu dott. Za. ha evidenziato che 'la contaminazione della ferita chirurgica può avvenire sia in sala operatoria (90% dei casi) che nel corso della degenza post operatoria (10%) se viene utilizzata una tecnica di medicazione imperfetta o siano gestiti in maniera non corretta i drenaggi e le medicazioni della ferita'.
In particolare, 'il sito chirurgico deve essere protetto con medicazioni sterili fino a quando i margini della ferita non si siano completamente chiusi e siano in via di completa cicatrizzazione. Le medicazioni devono essere fatte in apposite sale di medicazione e non nelle stanze di degenza ove vi è un intenso passaggio di persone e di altre diverse attività'.
Non è stato dimostrato che tali cautele sono state adottate.
Il capitolo di prova formulato sub 21) da Asl 'Vero che la ferita chirurgica venne medicata nel post operatorio secondo le norme di asepsi e utilizzando strumentario chirurgico imbustato singolarmente' nulla dimostra, in quanto non specifica quali sono le norme di asepsi seguite nel caso del sig. Ri..
Inoltre, non è stata dimostrata l'idoneità della sala operatoria che, sempre seguendo la ctu dott. Za., deve avere caratteristiche ben precise con adeguata ventilazione, dal momento che 'il 98% dei batteri che infettano un sito chirurgico derivano dall'aria della sala operatoria:
di questi il 30% raggiunge la ferita direttamente dall'aria stessa mentre il 70% la raggiunge per via indiretta tramite gli strumenti chirurgici su cui il pulviscolo ambientale si è depositato'.
L'onere della prova era, nel caso di specie, ancor più stringente: due interventi chirurgici e subito dopo altrettanti infezioni batteriche nosocomiali. La Asl avrebbe dovuto, quindi, dimostrare che si era trattato di una sfortunata coincidenza; ma tale prova non è emersa.
L'impossibilità di capire le reale dinamiche del contagio non può che essere addebitata alla parte convenuta, gravata dal relativo onere.
Del resto, sul punto, le conclusioni di entrambi i ctu sono state concordi. La ctu dott. Za. ha affermato che 'l'onere probatorio contrattualistico in capo alla struttura sanitaria della effettiva applicazione dei protocolli di profilassi e prevenzione delle infezioni non è stato rispettato, e lascia particolarmente colpiti il fatto che in entrambe i ricoveri il paziente abbia contratto infezione nosocomiale, ad ulteriore indiretta riprova di una carente gestione e vigilanza delle pratiche di sanificazione, sterilizzazione e profilassi perioperatorie di struttura', mentre la ctu dott.ssa Po. ha riferito che, pur essendo adeguati in astratto i protocolli di igiene, sterilizzazione, lavaggio delle mani pulizia del blocco operatorio, non è possibile 'verificare se gli stessi siano in effetti rispettati in ogni fase del ricovero'.
Ne discende la conferma della responsabilità della Asl nella presente causa.
Il primo motivo di appello (nella parte in cui contesta il grado di invalidità riscontrato dalla sentenza di primo grado), il secondo, il terzo ed il quarto motivo possono essere esaminati congiuntamente, in quanto tutti relativi alla quantificazione del danno subito e sono parzialmente fondati.
Nel corso del giudizio di primo e secondo grado, sono state svolte due perizie.
Entrambe concordano in ordine alle conseguenze sul piano motorio e neurologico causate dalla vicenda per cui è causa in capo all'attore, mentre differiscono in relazione alla riconducibilità alla vicenda de qua degli ulteriori effetti patologici.
Non risulta provato che, come sostenuto dalla dott.ssa Po., la vicenda per cui è causa ha provocato nel sig. Ri. un decadimento cognitivo. Come evidenziato dalla ctu dott. Za., questo, infatti, non è documentato e non presente nel 2014, quando il sig. Ri. è stato descritto sempre vigile, orientato e collaborante. Inoltre, il sig. Ri. era affetto da una vascolopatia cerebrale preesistente che potrebbe essere autonomamente progredita verso la forma involutiva sommariamente descritta dalla Dott.ssa Po.. La sola circostanza che, nel corso della sfortunata vicenda, è stato constatato un progressivo decadimento delle condizioni cognitive del sig. Ri. non è, quindi, argomento sufficiente per ritenere dimostrato il nesso causale laddove, come nella specie, sussistano ipotesi alternative altrettanto plausibili ben evidenziate dal dott. Za..
Analoghe considerazioni portano ad escludere che l'incontinenza urinaria è stata conseguenza degli errori medici, secondo la conclusione fatta propria dalla dott.ssa Po..
Diversamente, la ctu Za. ha così concluso: 'Nelle schede infermieristiche dei vari ricoveri il pz è sempre stato inquadrato come continente. Il nursing infermieristico prevede peraltro l'utilizzo di catetere vescicale e di pannolone nella gestione di un malato come il sig. Ri., allettato o scarsamente mobilizzabile. Non dimentichiamo che lo stesso era anche portatore di ipertrofia prostatica benigna che di per se, nella sua evoluzione, può prevedere la minzione imperiosa e quindi l'incontinenza'.
Infine, la ctu svolta nel giudizio di appello ha ridimensionato la condizione depressiva del paziente correlata alla vicenda per cui è causa, constatando, comunque, che, già in precedenza, il sig. Ri. ne era affetto.
Di conseguenza, il ctu dott. Za., con argomentazioni sostanzialmente accettate da tutte le parti in causa e, comunque non contraddette con argomentazioni scientifiche di rilievo ha riconosciuto che, a fronte di un'invalidità del 15%, di cui sarebbe stato portatore il sig. Ri. se tutto fosse andato come doveva andare, vi è stato un aggravamento conseguente agli errori medici fino ad un'invalidità permanente finale del 55%.
L'invalidità temporanea è stata, infine, determinata in 405 gg al 100%.
Prima di procedere alla liquidazione del danno, si deve valutare se è possibile tener conto della circostanza che il sig. Ri. è morto prematuramente.
La giurisprudenza ritiene corretto tener conto della più breve durata della vita dell'infortunato, quando questa sia indipendente dal fatto illecito, dal momento che anche questa è una forma di personalizzazione del danno. Si esclude, perciò, che, in questo caso, siano applicabili le tabelle ordinarie in uso presso il Tribunale di Milano, che si basano sull'aspettativa di vita media dell'infortunato, in considerazione del fatto che il tempo per il quale il soggetto leso subirà le conseguenze non patrimoniali della lesione della sua integrità psicofisica (misurate tramite la percentuale dell'invalidità permanente) è progressivamente inferiore rispetto a quello presunto dalle tabelle medesime (sul punto, Cass. 12913/20; Cass. 4551/19; Cass. 10897/16; Cass. 679/16; Cass. 1331/15; Cass. 2297/11; Cass. 23739/11; Cass. 22338/07).
Per questa ragione, le tabelle più recenti in uso presso il Tribunale di Milano (anno 2021) prevedono espressamente una autonoma liquidazione per il caso in cui l'infortunato muoia prematuramente (pag. 63 della relativa relazione esplicativa).
Il sig. Ri. è deceduto prima della udienza di precisazione delle conclusioni del giudizio di primo grado.
Nessun motivo specifico di appello è stato proposto sul punto.
Solo con la comparsa conclusionale dell'appello, l'appellante ha invocato la circostanza, al fine di ottenere una rideterminazione dell'ammontare del danno.
Va premesso che la giurisprudenza sostiene che 'con le memorie di cui all'art. 190 c.p.c. le parti possono solo replicare alle deduzioni avversarie ed illustrare ulteriormente le tesi difensive già enunciate nelle comparse conclusionali e non anche esporre questioni nuove o formulare nuove conclusioni, sulle quali, pertanto, il giudice non può e non deve pronunciarsi' (Cass. 98/16).
Le allegazioni contenute nella conclusionale, quindi, possono essere considerate solo come una sollecitazione all'esercizio dei poteri di ufficio da parte del collegio.
Bisogna, quindi, valutare se tali poteri sussistono.
La giurisprudenza distingue tra eccezioni in senso stretto da un lato e eccezioni in senso lato e difese dall'altro.
Le prime sono quelle per le quali la legge espressamente riserva il potere di rilevazione alla parte.
Le seconde, invece, possono essere rilevate d'ufficio.
La giurisprudenza ritiene che appartengono a questa categoria le circostanze volte ad evitare che la parte, a seguito del risarcimento, possa conseguire un risarcimento non dovuto o, comunque, possa arricchirsi, ricevendo più della diminuzione patrimoniale subita, come nel caso di eccezione di compensatio lucri cum damno (sul punto, da ultimo, Cass. 26757/20) o di pagamento (Cass. 6350/10).
Analogamente, non considerare l'intervenuto decesso determinerebbe un risarcimento superiore al dovuto.
Si deve, quindi, concludere che la circostanza possa essere rilevata d'ufficio.
A questo punto, si pone il problema se questa possa essere esaminata per la prima volta in appello.
L'art. 345 c.p.c. vieta la proposizione in appello di domande e di eccezioni non rilevabili d'ufficio nuove.
Nulla dice, invece, su eccezioni in senso lato e mere difese.
Il silenzio normativo sul punto denota l'insussistenza di divieti.
Tale posizione è sostenuta dalla giurisprudenza, la quale ritiene che il divieto in esame debba essere interpretato restrittivamente e che il Giudice debba tener conto dei fatti posti a fondamento di un'eccezione in senso lato e di una mera difesa, anche in difetto di una specifica e tempestiva allegazione della parte, purché questi risultino documentati "ex actis", poiché il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che resterebbe sviato ove pure le questioni rilevabili d'ufficio fossero soggette ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto (Cass. 26118/21; Cass. 22371/21; Cass. 9200/21; Cass. 25434/19; Cass. 27988/18).
Così, ad es., la Suprema Corte ha ritenuto corretta la sentenza del Giudice di merito che aveva ridotto il risarcimento, per danno parentale, riconosciuto in primo grado al coniuge del defunto, e ciò, nonostante, solo in appello, la controparte avesse allegato e dimostrato che la prima era separata dal marito. Secondo la Suprema Corte, infatti, la circostanza dedotta era una mera allegazione difensiva per negare l'esistenza dei fatti a fondamento della domanda, come tale esaminabile per la prima volta in appello (Cass. 25415/13).
Nel caso di specie, il tema della morte del sig. Ri. è entrato nel processo nel momento in cui, in appello, si è costituito il suo erede e di questa circostanza deve, quindi, tenersi conto ai fini della determinazione del danno.
Si deve, quindi, procedere alla liquidazione dei danni subiti sulla base delle tabelle nel caso di premorienza.
La giurisprudenza (Cass. 6341/14; Cass. 28986/19; Cass. 28990/19; Cass. 17555/20) afferma che lo stato di salute anteriore della vittima di lesioni personali può concausare la lesione, oppure la menomazione che da quella derivata.
La prima ipotesi attiene al ciclo della causalità materiale ed è, quindi, regolata dall'art. 41 c.p. e dall'art. 1227 c.c., co. 1, venendo in questione il concorso della causa naturale (lo stato di salute pregresso) con la causa umana (l'illecito oggetto del giudizio) nella determinazione dell'evento lesivo della salute in un soggetto già parzialmente compromesso.
Nel nostro caso, invece, lo stato di salute preesistente ha aggravato le conseguenze della lesione del diritto alla salute.
Siamo in presenza, cioè, di menomazioni concorrenti, in quanto tali sono quelle che colpiscono il medesimo organo, arto o apparato corporeo (ovvero che concernono più arti od organi sinergici od aventi comunque affinità funzionale). Tali menomazioni comportano, di regola, una variazione incrementativa dell'effetto invalidante e dunque del grado di invalidità della menomazione preesistente e delle rinunce cui avrebbe dovuto sottoporsi l'appellato a causa delle sue preesistenti patologie.
Secondo la giurisprudenza sopra segnalata, in particolare, le menomazioni concorrenti vanno di norma tenute in considerazione: a) stimando in punti percentuali l'invalidità complessiva dell'individuo (risultante, cioè, dalla menomazione preesistente più quella causata dall'illecito), e convertendola in denaro; b) stimando in punti percentuali l'invalidità teoricamente preesistente all'illecito, e convertendola in denaro; lo stato di validità anteriore al sinistro dovrà essere però considerato pari al 100% in tutti quei casi in cui le patologie pregresse di cui il danneggiato era portatore non gli impedivano di condurre una vita normale; c) sottraendo l'importo (b) dall'importo (a). Il tutto, salvo il potere-dovere del giudice di ricorrere all'equità correttiva ove l'applicazione rigida del calcolo che precede conduca, per effetto della progressività delle tabelle, a risultati manifestamente iniqui per eccesso o per difetto.
Da quanto detto, ne discende che si deve procedere a sottrarre dall'importo riconosciuto come dovuto dalle tabelle milanesi per un'invalidità del 55%, nel caso di sopravvivenza per un periodo di 5 anni, quanto riconosciuto dalle medesima tabelle per l'invalidità del 15%, per analogo periodo.
Il risultato della sottrazione è pari ad euro 76.655,00.
Il Tribunale ha incrementato l'importo riconosciuto per invalidità permanente, così motivando in punto personalizzazione: 'Il danno alla salute sopra indicato non esaurisce, tuttavia, nel caso concreto, l'intero danno non patrimoniale risarcibile al danneggiato. Si ritiene, infatti, che taluni apprezzabili aspetti (o voci) che vengono in rilievo e che da tempo sono solitamente ricondotti dalla giurisprudenza prevalente nella unitaria categoria generale del danno non patrimoniale, non risulterebbero adeguatamente risarciti con la sola applicazione dei predetti valori monetari della tabella. Per l'integrale risarcimento del danno non patrimoniale sofferto dall'attore è infatti necessario procedere ad una adeguata 'personalizzazione', avendo riguardo a quei profili riconducibili alla sofferenza soggettiva, ai pregiudizi alla vita di relazione e ai riflessi negativi sulle abitudini di vita che possono ritenersi sussistenti in relazione alle conseguenze dell'inadempimento e/o inesatto adempimento delle prestazioni che le strutture sanitarie convenute erano direttamente obbligate ad eseguire in base al contratto atipico concluso con l'attore . Il CTU ha rappresentato l'attuale ed irreversibile situazione dell'attore che, ad oggi: presenta una marcata compromissione della capacità deambulatoria che ne limita grandemente le autonomie; deambula solo con doppio sostegno ed i passaggi posturali avvengono unicamente con aiuto umano; presenta un disallineamento del bacino, con marcate limitazioni dell'arto inferiore destro e un accorciamento dello stesso di circa 3 cm; presenta un'incontinenza urinaria e un decadimento cognitivo progressivo e uno stato ansioso depressivo per cui assume regolarmente terapia medica. I predetti esiti limitano significativamente le attività dinamico relazionali dell'attore.
Alla luce di tali considerazioni e per addivenire ad un integrale risarcimento che tenga conto dei vari aspetti che concorrono nella individuazione del composito danno di cui si discute, si ritiene di 'personalizzare' il danno subito dall'attore aumentando la somma relativa all'invalidità permanente risultante dall'applicazione delle tabelle (euro 306.224,00) del 25% ovvero di euro 76.556,00 fino ad euro 382.780,00, e dunque fino ad euro 431.584,00 che costituisce quindi il complessivo danno non patrimoniale con personalizzazione massima risarcibile liquidato (E 382.780,00 per danno biologico permanente ed E 48.804,00 per danno biologico temporaneo)'.
In sostanza, per giustificare l'incremento, il Giudice di primo grado ha tenuto conto della 'marcata compromissione della capacità deambulatoria che ne limita grandemente le autonomie', delle difficoltà deambulatorie, delle limitazioni dell'arto inferiore destro e un accorciamento dello stesso di circa 3 cm, dell'incontinenza urinaria, del decadimento cognitivo progressivo e dello stato ansioso depressivo per cui assume regolarmente terapia medica.
Tuttavia, si è già posto in rilievo che gran parte delle patologie sopra descritte non sono da porre in collegamento causale con i fatti di causa;
in ogni caso, si tratta di circostanze che hanno già concorso alla determinazione del grado di invalidità riscontrato e che, quindi, non possono essere conteggiate 2 volte.
Sul punto, la giurisprudenza afferma 'In presenza di un danno permanente alla salute, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico e l'attribuzione di un'ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente; soltanto 'in presenza di circostanze specifiche ed eccezionali', le quali rendano il danno concreto più grave rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età, è consentito al giudice, con motivazione analitica, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione (Cass. 28988/19).
In tema di danno non patrimoniale da lesione della salute, la misura "standard" del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato negli uffici giudiziari di merito (nella specie, le tabelle milanesi) può essere incrementata dal giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, solo in presenza di conseguenze anomale o del tutto peculiari (tempestivamente allegate e provate dal danneggiato), mentre le conseguenze ordinariamente derivanti da pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età non giustificano alcuna "personalizzazione" in aumento (Cass. 5865/21).
In termini analoghi, si vedano Cass. 26118/21; Cass. 5865/21; Cass. 407/21; Cass. 25164/20; Cass. 32787/19; Cass. 24473/20; Cass. 26304/19, Cass. 2788/19, Cass. 3722/19; Cass. 26304/19; Cass. 27482/18; Cass. 23469/18; Cass. 10912/18; Cass. 21939/17; Cass. 16788/15; Cass. 17219/14; Cass. 23778/14.
In sostanza, devono considerarsi normali (e, quindi, non rilevanti ai fini della personalizzazione) tutte le conseguenze della menomazione dell'integrità psicofisica, sul piano della loro incidenza sulla vita quotidiana, che, per quanto gravi, sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito il medesimo tipo di lesione guarita col medesimo tipo di postumi e, quindi, già misurate da quel grado di invalidità.
Ne discende che nessuna personalizzazione può essere riconosciuta per l'invalidità permanente.
Per quanto riguarda l'invalidità temporanea, questa è stata determinata, in via differenziale, dal ctu in complessivi 405 gg., tutti trascorsi in ricovero ospedaliero o presso il Centro S. Anna. Inoltre, il sig. Ri. è stato sottoposto in questo periodo a diversi interventi chirurgici.
Tali circostanze giustificano una liquidazione per ogni giorno di invalidità massima, pari a 149,00 euro.
Complessivamente, quindi, per invalidità temporanea sono dovuti 60,345,00 euro.
L'importo così riconosciuto a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, pari a complessivi euro 137.000,00 determinato sulla base di tabelle risalenti al gennaio 2021, deve essere attualizzato, e, quindi, rivalutato da tale data sino alla data odierna.
Una volta attualizzato l'importo dovuto, spetta, altresì, al creditore il risarcimento dell'ulteriore pregiudizio, rappresentato dalla perduta possibilità di disporre tempestivamente della somma dovuta, investirla e ricavarne un lucro finanziario.
Quest'ultimo tipo di pregiudizio va liquidato in via equitativa, sotto forma di interessi (c.d. compensativi), dovuti in misura legale e liquidati d'ufficio (Cass. 4028/17).
La base di calcolo di tali interessi non è rappresentata dal credito rivalutato, ma da quello originario, cioè, espresso nella moneta dell'epoca in cui è sorta l'obbligazione, rivalutato anno per anno secondo gli insegnamenti di Cass. Sez. Un. 1712/95.
La somma riconosciuta a titolo di risarcimento deve, quindi, essere devalutata dal 1 gennaio 2021 (data di adozione delle tabelle di Milano) sino al momento del fatto.
Su questa somma, rivalutata anno per anno, devono, poi, essere calcolati gli interessi compensativi fino alla data della presente decisione.
Dalla data della sentenza sono dovuti gli interessi al tasso legale sul solo importo liquidato, corrispondente al capitale già rivalutato.
La rivalutazione va effettuata applicando sulle somme gli indici della rivalutazione monetaria ricavati dalle pubblicazioni ufficiali dell'Istituto Nazionale di Statistica. Gli indici presi in considerazione sono quelli del c.d. costo della vita, ovverossia del paniere utilizzato dall'ISTAT per determinare la perdita di capacità di acquisto con riferimento alla tipologie dei consumi delle famiglie di operai ed impiegati (indice F.O.I.).
La riduzione degli importi liquidati opera anche a vantaggio del centro S. Anna, che ha proposto analoghi motivi di appello incidentale in relazione al quantum.
La circostanza che quest'ultima, in sede di conclusionale, abbia chiesto, in difformità dalle conclusioni precisate alla relativa udienza, di confermare la sentenza di primo grado non rileva, dal momento che la giurisprudenza afferma che 'Nell'interpretazione della domanda giudiziale il giudice del merito incontra un duplice ordine di limiti, consistente nel rispetto del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato e nel divieto di sostituire d'ufficio un'azione diversa da quella espressamente e formalmente proposta. Egli, pertanto, deve tenere conto dei limiti oggettivi della domanda, quali risultano non soltanto dal contenuto dell'atto introduttivo del giudizio, ma anche dalle conclusioni definitive precisate dopo la chiusura dell'istruzione, poste in relazione con la citazione e con le eventuali modifiche e trasformazioni delle conclusioni originarie, mentre non può desumere il concreto contenuto della domanda giudiziale dalla comparsa conclusionale la quale, ai sensi dell'art. 190 c.p.c., ha un carattere meramente illustrativo delle conclusioni già fissate davanti all'istruttore. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza della corte d'appello che, anziché interpretare la domanda alla luce del contenuto oggettivo della stessa, si era basata su un passaggio argomentativo della memoria di replica). (Cass. 5402/19)
Inoltre, per il disposto dell'art. 336 c.p.c. la riduzione degli importi giova anche a Unipolsai, che ha sì chiesto di confermare la sentenza, ma limitatamente al motivo di appello proposto dalla Asl in relazione al diverso grado di responsabilità dei danneggianti.
Con l'ultimo motivo di appello, la Asl ha contestato le conclusioni della sentenza di primo grado che aveva ritenuto paritaria la responsabilità della Casa di Cura S. Anna e quella della appellante, quando, invece, la prima, basata su una grave negligenza, era assai più grave di quella della Asl 1.
Il motivo di appello è infondato.
Sussiste una responsabilità paritaria da parte dei convenuti che, con le proprie condotte colpevoli, hanno concorso a causare le lesioni poi riscontrate, con conseguente responsabilità solidale ex art. 2055 c.c.
Alla Asl si imputa di avere causato una duplice infezione, mentre al centro s. Anna di non avere adeguatamente vigilato sul paziente affidatole, impegnato in attività di fisioterapia proprio a seguito della rottura del femore.
Come efficacemente dedotto dal ctu dott. Za., che ha sostanzialmente condiviso le analoghe considerazioni della dott.ssa Po., i diversi inadempimenti imputati ai convenuti hanno concorso al progressivo peggioramento delle condizioni di salute del sig. Ri..
Infatti, il primo inadempimento della Asl ha concorso, con la condotta del fisioterapista negligente, alla seconda rottura del femore: 'se non vi fosse stata la prima infezione da E. Coli il sig. Ri., 71 enne obeso (180 cm per 110 kg, BMI 33 obesità lieve), sarebbe stato portatore degli esiti di frattura pertrocanterica di femore trattata con chiodo gamma, il cui esito invalidante è ipotizzabile in danno biologico del 15%. La prima infezione ha di necessità condotto alla immediata rimozione del chiodo gamma, onde procedere alla sanificazione dell'area infettata prima di intervenire con la necessaria protesizzazione totale d'anca'. In tal modo, vi è stato un indebolimento dell'arto che, più fragile, si è rotto nel corso della seduta fisioterapica. Si può, quindi, concludere che la frattura del femore è stata 'più probabilmente che non' conseguenza della infezione da E. Coli conseguente al primo intervento.
In considerazione della sostanziale soccombenza di Asl e Centro S, Anna all'esito del giudizio, considerato che la riduzione degli importi richiesti a titolo di risarcimento del danno è riconducibile a fatti sopravvenuti (la morte del sig. Ri.), le spese di lite seguono la soccombenza e vengono liquidate, sia in primo che in secondo grado, sulla base dello scaglione relativo all'importo effettivamente liquidato.
PQM
In parziale accoglimento dell'appello proposto da Azienda Unità sanitaria locale 1 Imperiese e da Il Centro Sant'Anna spa ed in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Imperia 481/18;
ridetermina in euro 137.000,00 la somma che Azienda Unità sanitaria locale 1 Imperiese e Il Centro Sant'Anna spa sono condannate a pagare a Si. Ri., quale erede di Na. Ri., oltre rivalutazione e interessi come in parte motiva;
condanna Azienda Unità sanitaria locale 1 Imperiese e Il Centro Sant'Anna spa a rifondere a Si. Ri. le spese di lite del giudizio di primo grado che ridetermina in euro 13.430,00 per compensi, oltre E 786,00 per spese esenti, spese generali al 15% e accessori di legge e quelle del giudizio di appello che liquida in euro 13.635,00 per compensi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge, con distrazione delle spese a favore del difensore antistatario avv. Malcontenti;
condanna Unipolsai a rifondere a Il centro Sant'Anna spa le spese di lite del giudizio di primo grado che ridetermina in euro 7.795,00 per compensi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge e quelle del giudizio di appello che liquida in euro 7.645,00 per compensi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge, con distrazione delle spese a favore del difensore antistatario;
pone le spese della ctu dott. Za. a carico di Azienda Unità sanitaria locale 1 Imperiese e Il Centro Sant'Anna spa;
condanna Unipolsai a manlevare Il Centro Sant'Anna spa di quanto dovrà pagare in esecuzione della presente sentenza e di quella di primo grado;
conferma nel resto la sentenza impugnata.
Genova 17 novembre 2021
Depositata in cancelleria il 24/11/2021
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Sentenza tratta dalla Banca Dati Dejure-Giuffrè Francis Lefebvre che si ringrazia per la gentile disponibilità.
Avv. Jacopo Alberghi
Foro della Spezia